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Circolo "Luce del Sud" Bari Blog

È arrivata la bufera

Sono incline ad assolvere Romano Prodi. Chiunque al suo posto avrebbe fatto peggio di lui. Ma ora tocca a Veltroni tentare l'azzardo per uscire dal pantano dell'Unione

È stato sarcastico Clemente Mastella: "Veltroni vincerà le elezioni nel Duemilacinquecento dopo Cristo". Con tutti i guai che lo affliggono, il capo dell'Udeur ha trovato il tempo per farsi beffe del leader del Partito Democratico che ha deciso di andare da solo al prossimo confronto elettorale. Ma non è stato l'unico a bacchettare Superwalter. Un burbanzoso Massimo D'Alema gli ha dato dell'intempestivo. Rosy Bindi è risalita sul cavallo da sceriffa e si è messa in caccia di Walter il fuorilegge. Persino quel verdone di Paolo Cento non si è trattenuto: "Veltroni sta correndo verso una sconfitta solitaria". Ma è davvero così sciocco e avventurista il segretario del PD? Con la decisione di puntare soltanto sul proprio partito, senza alleanze preventive, sta realizzando un'inconscia vocazione al suicidio? Penso proprio di no. Superwalter si è limitato a prendere atto di quello che è accaduto a Romano Prodi, prima e dopo le elezioni del 2006. E ha avuto la schiettezza di dire che il centro-sinistra non esiste più. Non soltanto quello di oggi, la sciagurata Unione, ma anche quello di domani, se costruito con le stesse regole pazze.Su quali dati di fatto ha ragionato Veltroni? Immagino su quelli che i cronisti non cortigiani hanno visto nell'inferno vissuto da Prodi e dal suo sfiancato governo ormai alla fine. L'Unione, esempio tragico di iper-coalizione fra incompatibili, già prima del voto ha cominciato a sparare una raffica di no contro il proprio candidato premier. Il Prof voleva presentare una sua lista, distinta dagli altri partiti unionisti. Ma gliel'hanno impedito, nel timore di renderlo troppo forte. Allora, Prodi ha chiesto di poter contare su un numero consistente di parlamentari suoi e glie ne hanno concessi soltanto cinque. Prodi ha domandato di presentare la lista dell'Ulivo non soltanto alla Camera, ma anche al Senato. E la risposta è stata sempre no. Il motivo? Nessuno l'ha mai capito. Poi si è constatato che la presenza dell'Ulivo a Palazzo Madama avrebbe reso meno anoressica la maggioranza in quel ramo del Parlamento.
Nel frattempo i dieci partiti del centro-sinistra si stavano dilaniando sul programma della coalizione. Nessuno ha voluto rinunciare a nulla. Con un risultato alla Fantozzi: un messale di quasi trecento pagine, un monumento cartaceo all'impotenza vorace della casta unionista. Subito riflessa nella composizione del governo: un mostro di centodue o centotre fra ministri, viceministri e sottosegretari. Con una serie di dicasteri spacchettati, una minutaglia senza compiti reali e priva di portafoglio. Inventati al momento, per soddisfare le voglie di qualche pennacchione o pennacchiona. Infine, questa catena di errori è stata resa ferrea dall'errore più grande: la certezza arrogante di stravincere. Ce la ricordiamo la convinzione superba che l'epoca del cavalier Berlusconi fosse chiusa per sempre? Per l'intera campagna elettorale venne recitata la stessa litania: il Caimano è morto e sepolto, dopo il voto il Genio del Male dovrà fuggire da Arcore, per rifugiarsi all'estero. Un truppa giuliva di scrittori, polemisti, cineasti, comici, vignettisti si precipitò a dare l'assalto al cadavere del Berlusca. Tutta la campagna per il voto di aprile ebbe lo stesso segno presuntuoso e incauto. Sotto le tende dell'Unione si vide troppo di tutto. La fretta di considerare l'Unipol un incidente passeggero. Le candidature dei parenti, piazzati in posizioni blindate e scaraventati in Parlamento. Gli sprechi dei tanti ras nelle regioni e nelle città rosse. L'alterigia nel dichiarare (lo fece D'Alema) che Berlusconi, mandato al tappeto per sempre, non avrebbe potuto guidare neppure l'opposizione. La storia del dopo-voto, ossia la vita perigliosa del governo Prodi, è troppo nota per essere ripercorsa. Proprio mentre si apriva la crisi finale del sistema partitico, l'Unione ha consegnato al Prof un'automobile sfasciata in partenza, con pochissimo carburante (una maggioranza parlamentare troppo esigua) e un clima avvelenato dai contrasti feroci fra i passeggeri, i partiti unionisti. Sono stati loro i primi a tradire il patto con gli elettori. È ridicolo accusare di questo Mastella. Lui un fellone? Può darsi. Ma in coda a tutti gli altri.

E le colpe di Prodi? Confesso che sono incline ad assolverlo. Nelle condizioni che ho descritto, chiunque al suo posto avrebbe fatto assai peggio di lui. Possiamo imputargli di essere stato troppo cocciuto, una testa quadra reggiana. Ma per un premier queste sono qualità, non difetti. Nessuno può chiedergli di gettare la spugna prima del tempo, prima dei due voti di fiducia. Nel pretenderli è stato corretto. Tuttavia, suggerisco al Professore di non voler sopravvivere a se stesso. E gli rammento che, dall'aprile 2006 in poi, il famoso Fattore C, il suo portafortuna, troppe volte ha fatto cilecca. Veltroni ha ricavato molte lezioni da quello che è accaduto a Prodi. E ha fatto una scelta saggia nel decidere che il PD andrà da solo al voto, qualunque sia la legge elettorale. Pochi hanno riflettuto su un dato importante: Veltroni aveva preso questa decisione ben prima di annunciarla. In proposito, ho un ricordo che risale al 19 novembre 2007. Ero andato a intervistarlo per 'L'espresso' e gli avevo chiesto se la 'vocazione maggioritaria' del PD non fosse un'utopia. Come mi suggeriva il bottino elettorale dell'Ulivo nel 2006: il 31,3 per cento dei voti, un dato buono, ma per niente maggioritario. Sono andato a rileggermi la risposta di Veltroni alla mia obiezione: "Stia attento: i flussi elettorali sono molto più veloci e forti di quel che pensiamo. L'opinione pubblica ha una grande mobilità. Giudica l'offerta. Valuta il leader. L'elettorato di appartenenza va diminuendo. Quindi avere un grosso risultato elettorale è possibile. A condizione di essere quello che si è deciso di essere". Come direbbe un politologo patentato? Gli elettori reagiscono all'offerta politica modificando le proprie convinzioni e, dunque, il proprio voto. È possibile che l'offerta di Superwalter (un partito nuovo che si muove da solo) abbia successo. Qualche segnale si sta avvertendo. Certo, è una scelta rischiosa. Ma inevitabile per un leader che voglia uscire dal pantano dell'Unione.Davanti a Veltroni c'erano due strade. L'andare con lo schieramento di oggi, quello dei Dieci Partiti Rissosi, garantirebbe soltanto la sconfitta. L'andare da solo gli offre una speranza di vincere. Tra la certezza di perdere e la possibilità di farcela, per remota che sia, non esistono dubbi: meglio l'azzardo che la morte sicura. Non c'è leadership senza rischio. Del resto, ripetere lo sfascio dell'Unione sarebbe assurdo: meglio chiudere subito la bottega del PD. Di qui alle prossime elezioni, vicine o lontane che siano, Veltroni dovrà scalare l'Everest con le scarpe da tennis. Avrà contro anche più di un'eccellenza democratica, come stiamo vedendo. In più, la crisi del sistema dei partiti è al culmine. Siamo nella giungla. Vicini a una guerra civile parolaia e smargiassa. Il discredito montante rende la casta sempre più aggressiva e spietata, come succede sempre quando un regime sta morendo. La campagna elettorale sarà un salto nel caos. Chi ha visto alla tivù l'ultimo 'Ballarò' è rimasto atterrito dalla ferocia dello scontro fra Pecoraro Scanio, la Bindi e Casini. È arrivata la bufera, è arrivato il temporale: così cantava Renato Rascel, un famoso attore comico di tanti anni fa. Oggi accadrà di peggio. L'intolleranza armata, per ora soltanto di insulti, è diventata la condizione normale del dibattito politico. Chi può fermare questa discesa nel caos ha un obbligo al quale non può sottrarsi. Un vecchio motto di Giulio Andreotti recitava: meglio tirare a campare che tirare le cuoia. Ma oggi quel detto non vale più. Oggi non sono in gioco le cuoia di un premier. Oggi è in gioco la pelle di un'Italia sfortunata, che rischia di assomigliare ai suoi politici peggiori.
(Da: http://www.l'espresso.repubblica.it)


di Giampaolo Pansa



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"Biciclette e cultura del non fare" di Rosamaria Banfi (27/01/08)

Noi non abbiamo nulla contro le biciclette, che rendono più vivibili le Città consentendo anche un prezioso esercizio fisico, e soprattutto non apparteniamo affatto alla cultura del “no” a tutto ed al contrario di tutto, che al contrario contestiamo ad una sinistra oscurantista e reazionaria che, anche nel segno di una sorta di ossessione della “discontinuità” in cui si è ristretto il sogno fallito della rivoluzione, boicotta scientificamente sviluppo e lavoro. Anche qui a Bari dove ha- per esempio- bloccato progetti strategici come l’ammodernamento e l’ampliamento del Porto, una soluzione del “nodo ferroviario” che avrebbe consentito l’utilizzo a fini di mobilità interna del “fiume di ferro” che attraversa la Città, l’asse Nord-Sud, per non parlare di un impianto di termovalorizzazione di cui oggi tutti scoprono la necessità. Progetti, essi sì, che avevano una straordinaria valenza in termini di lavoro e di efficienza urbana, che sono due valori evidentemente non molto presenti in una sinistra sempre più elitaria che ha da tempo perduto il contatto con le problematiche autentiche della gente comune.Ciò però, come non ci ha impedito di vedere –in perfetta sintonia con gran parte della popolazione interessata- le contro-indicazioni di una ristrutturazione di via Sparano di cui in verità non si avvertiva la necessità o quanto meno l’urgenza, fino ad indurre a furor di popolo l’Amministrazione ad ascoltarci, non ci può impedire di vedere le non meno consistenti conseguenze negative della realizzazione di una pista ciclabile fine a sé stessa che renderà ulteriormente caotico il traffico in un’area vitale della Città come quella che gravita su Viale Unità d’Italia, riducendo ulteriormente i già introvabili spazi di parcheggio, senza peraltro dare alcun reale vantaggio ai ciclisti attuali o potenziali, dato che si tratta di una striscia chiusa in sé stessa, per raggiungere la quale dalle altre parti della Città occorrerà evidentemente caricarsi la bici sulle spalle o trasportarvela con qualche mezzo a motore, per respirarvici una delle arie più ammorbate dell’intera Bari. Insomma, un’altra operazione di mera immagine da parte di un’Amministrazione evidentemente bisognosa di migliorarsela, che non arrecherà alcun vantaggio al Barese comune che peraltro non sempre può permettersi di andare in bicicletta (si pensi ai vecchi, ai bambini, ai disabili, che pure costituiscono le componenti più fragili della comunità, alle quali preliminarmente dovrebbero essere destinati i pubblici interventi) e con risultati che potrebbero rivelarsi non dissimili da quelli dei getti d’acqua sul Lungomare, per non parlare dei costi, che sono comunque a carico del contribuente anche quando non gravano sul Bilancio autonomo del Comune.Diverso sarebbe il discorso se si riferisse ad un progetto organico che investa, rendendolo tutto ciclabile, l’intero territorio cittadino. Ma in tal caso occorrerebbe partire non già dalle aree centrali in cui gli spazi sono più preziosi, i pericoli maggiori e l’aria più inquinata, ma da quelle meno congestionate e più periferiche.Ma lì forse si vedrebbero meno, e ad un’Amministrazione che ha puntato tutto sull’apparire perché nulla sa costruire, ed anzi è guidata –essa sì- dalla cultura del non fare, non servirebbero più. (Da: http://www.aziendabari.it)


di Rosamaria Banfi



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Intercettazione: è arrivato il seguito

In queste ore convulse c'è giunta un'altra intercettazione. Gli interlocutori sembrano gli stessi della prima, ma i toni sono cambiati. Non sappiamo se sia vera o falsa, ma certo ci appare verosimile e come sempre nessun altro sembra volerla pubblicare. Tocca a noi ancora una volta farcene carico. Anche questa volta c'era un bigliettino scritto a mano nella busta, con poche parole che dicevano: "Io continuo a registrare tutto, ma nessuno se ne interessa. Forse si sono dimenticati di me. Spero sempre in voi".
Presidente….?
Qui non c’è più nessun presidente, chi è?
Presidente sono io, non mi riconosce?
Ah lei, certo senatore, che cosa vuole da me?
Come che voglio, dopo quello che ho fatto per lei…
Non è servito a molto senatore…
Infatti, mala colpa è sua: mi ha fatto salire su una barca che affondava…
Conosceva i rischi…
Presidente, io veramente pensavo che lei si fosse meglio organizzato, che avesse i numeri, sennò mica facevo quello che ho fatto
Ci sono stati più traditori del previsto…
E adesso tutte le promesse di babbo natale che fine fanno? Io mi sono esposto ora mi trattano da appestato…
C’è tempo senatore, la partita non è finita, ho ancora in mano molte carte…
Sì, certo presidente, ma so’ tutte scartine…
Non è detto, la confusione è grande, tutto può succedere
Presidente io mi sono legato a lei a filo doppio, lei mi deve qualcosa
Sto pensando già a qualcosa, una sorpresa, vedrà
Di che si tratta presidente?
E’ presto per parlarne: sto pensando a una cosa mia, con tutti gli amici, lei avrà un posto in prima fila…
Che pensa di mollare il suo partito, presidente?
Non è il mio partito, non lo è mai stato. Io penso ad altro e vedo già la luce in fondo al tunnel
Presidè, non sarà mica il treno!?
(Da: http://www.loccidentale.it/)


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PRODI SE N’E’ ANDATO E NON RITORNA PIU’.

“Prodi se n’è andato e non ritorna più”: è da ieri sera che questo ritornello mi torna irrefrenabilmente sulle labbra, anche se con spirito opposto, un esilarante senso di liberazione, a quello, struggente, della bella canzone che ha lanciato Laura Pausini.
Forse mai nella storia della Repubblica un governo è caduto con tanta soddisfazione per la stragrande maggioranza degli Italiani, avendo i suoi predecessori anche più controversi lasciato rimpianti e comunque apprensioni per l’avvenire.
Prodi se n’è andato invece lasciando soltanto macerie, sia sul fronte delle politiche del governo che negli ultimi giorni avevano fatto vivere al nostro Paese le cocenti umiliazioni dello spettacolo nauseabondo dell’immondizia campana e dell’indegno sgarbo al Papa, sia sul terreno della politica con il definitivo affossamento di una alleanza che pure sembrava l’avveramento di quell’invincibile “macchina da guerra” che vagheggiava il povero Occhetto, una formidabile armata che poteva annoverare a suo favore non soltanto il controllo della quasi totalità dei pubblici poteri, ma anche la condivisione di quelli “forti”, dalla Suprema Corte alle Procure della Repubblica, dalla piovra delle Banche ai Sindacati egemoni fino ai baronati della cultura ed al dominio preponderante dei mass-media.
Occorreranno anni per rimediare ai suoi disastri, che ci hanno fatto perdere l’occasione di una forte ripresa dell’economia internazionale per inseguire politiche retrive e regressive pesantemente segnate da un’ideologia comunista sempre più obsoleta e fallimentare, che hanno coscientemente azzerato –o quanto meno gravemente svuotato- le riforme necessarie per la competitività del sistema-Italia, dalla legge-Biagi sul mercato del lavoro che ha consentito una crescita costante dell’occupazione anche in presenza di una negativa congiuntura internazionale, a quella pensionistica che rendeva sostenibile il nostro sistema previdenziale a garanzia soprattutto delle giovani generazioni, dalla “legge-obiettivo” sull’ammoderrnamento infrastrutturale del Paese –ribaltata dalla politica del “no” a tutto ed al contrario di tutto impersonata da Pecoraro Scanio- ad una riforma fiscale che aveva finalmente iniziato ad alleggerire il peso opprimente delle tasse sulla società italiana, a sua volta schiacciata dalla insaziabile e sadica voracità di Padoa Schioppa e Visco, per finire alla grande Riforma Costituzionale i cui capisaldi- dal premierato all’eliminazione del bicameralismo perfetto- sono non a caso stati ripresi pari.pari da Violante in una sorta di progetto-fotocopia, mentre p tornata ad incombere la parte peggiore del pur tanto vituperato federalismo, che è quello fiscale.
Certo è che l’Italia di Prodi, che pure si è giovata di circostanze infinitamente migliori, è molto più povera, più sputtanata e più incazzata di quella di Berlusconi, con il Cavaliere che passa da un trionfale bagno di folla all’altro ed il Professore che non può più permettersi di mettere il naso fuori dal Palazzo se non vuole essere sommerso di fischi e di sberleffi.
Adesso faranno di tutto per evitare la meritata punizione da parte degli Italiani, anche perché ad un Centro-destra ricompattato in cui la leadership di Berlusconi, la cui tanto irrisa “spallata” infine è riuscita, si è nuovamente rafforzata, corrisponde una “Unione” sconfitta e spaccata, monca della sua pur debole componente moderata e lacerata tra un PD a sua volta diviso tra la voglia di solitudine di Veltroni da un lato e gli inestinguibili rancori di Prodi e le resistenze delle vecchie nomenclature dall’altro, ed una “Cosa Rossa” a sua volta abortita prima di nascere.
Ma l’Italia ha bisogno di una svolta profonda, che passi prima attraverso una vittoria secca di un Centro-destra emancipato dalle ambiguità di taluni suoi pur autorevoli leaders, e poi per una sua alleanza forte per le grandi riforme con un PD a sua volta emancipato dagli ultimi residui dell’arroganza prodiana e magari anche del cinismo dalemiano. Sull’altare della quale, a vittoria del Centro-destra conseguita, si può, e forse si deve, anche pensare ad una grande coalizione che restituisca alla politica il suo primato anche rendendo stabili le riforme stesse.
Purchè un Centro-destra forte la guidi compatto e Veltroni si liberi delle palle al piede di un conservatorismo di sinistra che ha determinato più di ogni altro fattore la caduta di un premier cinico ed arrogante che gli si era furbescamente consegnato, ben sapendo che il conto lo avrebbero pagato gli Italiani.


di Tommaso Francavilla



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Prodi si schianta sul Senato. Tutti a casa.

Cade. Lo fa nel peggiore dei modi. O nel migliore a seconda dei punti di vista. Romano Prodi ha voluto portare la crisi in Parlamento, levandola dai salotti televisivi. Il risultato è questo qui: 161 no e 156 sì, fiducia negata, tutti a casa.
Che la storia stava prendendo una brutta piega, Prodi lo capisce nel corso del pomeriggio. Tant’è che, quando al termine del dibattito gli tocca replicare, la sicumera del giorno prima è solo un vago ricordo. Mogio, coda tra le gambe, il presidente del Consiglio ammette di aver insistito per arrivare al voto a Palazzo Madama “per il rispetto verso il Parlamento. La mia”, dice Prodi, “non è testardaggine, ma coerenza”.
Prima della chiama dei senatori, c’è giusto il tempo per un tentativo disperato di far recedere Clemente Mastella. Ma l’ex Guardasigilli è irremovibile. E’ arrivato espressamente da Ceppaloni, ma per votare no. Non ci sono santi. E l’ira mastelliana si scatena anche sul suo (ex) fedelissimo Nuccio Cusumano, in piena crisi di identità. Cusumano prende la parola in aula nel corso del dibattito. Annuncia che lui, solo lui per l’Udeur, voterà la fiducia al governo. Apriti cielo. L’altro martelliano Tommaso Barbato (in tutto con Clemente sono in tre) gli si avventa contro. E sono parolacce, corna, sputi. Una sceneggiata che finisce in ambulatorio, visto che il senatore fedifrago nel parapiglia accusa pure un malore.
L’ultimo abbordaggio è inutile. Anche perché Mastella non è l’unico problema. Prende la parola Giuseppe Scalera a nome dei diniani. Pure loro voltano le spalle a Romano. Così come fa Domenico Fisichella che, alla fine, scioglie la riserva. Non nella dichiarazione di voto, ma in extremis quando passa sotto la presidenza. Nella confusione generale, scompare il senatore a vita Giulio Andreotti. Aveva annunciato il suo sì alla prosecuzione del governo Prodi, poi deve averci ripensato. Alla fine risulta assente, e come lui l’italo-argentino Luigi Pallaro.
E’ la disfatta annunciata. Alla fine delle operazioni di voto, il presidente Franco Marini proclama il risultato mentre i senatori d’opposizione stappano in aula una bottiglia di champagne per festeggiare. Mesto, Romano Prodi si avvia al Quirinale per le dimissioni. E’ il 618esimo giorno del suo mandato. L’ultimo.(Da: http://www.loccidentale.it)





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Attenti al paese che ci guarda

Di questa crisi ci sono molte cose che non si capiscono e c'è una cosa che è chiarissima. Non si capisce chi l'ha aperta e perché (nessuno crede all'ipotesi che Mastella abbia agito da solo). Non si capisce quale sia il disegno di chi l'ha aperta. Non si capisce come possa concludersiné quali siano i calcoli di Prodi. Non si capisce la posizione del partito Democratico. Non si capisce quale sia il progetto del Vaticano (vero e proprio e ormai dichiarato terzo polo dello schieramento politico parlamentare italiano). Non si capisce nemmeno cosa davvero vogliano i partiti che - per tattica o per opportunità - non dichiarano mai quello che pensano davvero (elezioni? Salvataggio di Prodi? Governo tecnico o istituzionale?).Qual è invece la cosa chiarissima? Che questa crisi può portare ad una frattura definitiva tra la maggioranza degli italiani e la politica. E le conseguenze sarebbero molte, a partire dalla "morte della politica". Morte della politica vuol dire sostanzialmente scioglimento del meccanismo democratico, trasferimento di tutti i poteri alle grandi potenze esterne al popolo e alla democrazia, vuol dire rischio mortale per lo stato di diritto, per l'impianto dello stato sociale, per le strutture fondamentali che regolano oggi la convivenza civile, e garantiscono, seppure in forme blande, i più deboli, i più poveri.Morte della politica vuol dire vittoria totale del capitalismo "feroce", vuol dire che il mercato e i padroni del mercato decideranno su ogni singolo minuto delle nostre vite, non ci lasceranno scelta, non ci lasceranno idee. Morte della politica vuol dire ridimensionamento delle libertà, cioè riduzione della libertà ad un diritto direttamente proporzionale alla ricchezza di ciascuno, e quindi alla negazione di se stessa.Non sono esagerazioni. E' lo scenario che abbiamo davanti. E per cambiarlo abbiamo bisogno di una specie di rivoluzione. Che tipo di rivoluzione? Beh, diciamo così: avete presente il mastellismo, cioè l'idea che il potere politico sia il sale della vita e che chi lo detiene abbia il diritto di giocarselo come vuole e di dividerne le briciole con chi vuole e di invadere tutte le pieghe e le pieghette più nascoste della società e della vita civile, e dominarle, e dettare lì, ovunque, la propria legge? Ecco la rivoluzione della quale abbiamo bisogno è l'opposto del mastellismo. Bisogna prendere l'idea di politica che ha Mastella e rovesciarla completamente. E quindi bisogna che la politica faccia autocritica, faccia un passo indietro, accetti il ridimensionamento delle proprie aree di intervento, dei privilegi, dei diritti acquisiti, e torni invece a riprendersi i suoi compiti naturali: il governo e la distribuziuoine delle ricchezze, dei diritti, delle solidarietà. Solo così la politica può tornare ad "allearsi" col popolo e quindi a rilegittimarsi.Credo che la sinistra o affronta da questo punto di vista la crisi di governo o è travolta. La crisi di governo e la crisi della politica per la prima volta coincidono pienamente. La crisi formalmente è stata aperta da una palese e clamorosa dichiarazione di "prepotenza" rilasciata da uno dei partiti (il più piccolo) della coalizione di governo. Che pretendeva non solo il riconoscimento della propria incondizionata discrezionalità nell'esercizio del potere, ma pretendeva impunità e la dichiarazione di complicità da parte di tutti i partiti della maggioranza. Questo pone la politica non in contrasto ma in contrapposizione completa con la società, con il "popolo" senza potere. La pone in una condizione di "inimicizia" proclamata: «Tu sei il popolo e io sono il potere, io ho il compito di dominarti». Questa idea mastelliana, se vince, completa la trasformazione della politica in attività non più democratica. La ingessa dentro un patto nel quale la politica rinuncia alla propria autonomia nei confronti dei grandi poteri esterni alla democrazia ( l'economia, la religione...) e in cambio ottiene una sorta di delega amministrativa che le permette di sfuggire al controllo di massa e al dettato della morale.Non è contro questo rischio che deve concentrarsi la parte essenziale della capacità di lotta della sinistra? Non è questo il cuore dello scontro che è aperto e che sarà decisivo per il futuro di questo paese, più ancora di quanto sarà decisiva la composizione del futuro governo? (Da: http://www.liberazione.it/)


di Piero Sansonetti


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Ma che fine ha fatto il premio di maggioranza?

Ma che fine ha fatto il premio di maggioranza? Nel dibattito in corso in queste ore sui possibili sviluppi della crisi di governo è incredibilmente scomparso dal contesto il meccanismo del premio di maggioranza, conferito in base alla legge elettorale con cui è stato eletto l’attuale Parlamento.
Tale meccanismo ha determinato la presenza alla Camera e al Senato di diverse decine di persone che sono entrate in Parlamento esclusivamente perché una ben precisa coalizione avendo ottenuto la maggioranza dei consensi degli elettori, ha beneficiato di un “plus” di rappresentanti in base alla legge vigente.
Ora si da il caso che tale coalizione non esista più. A maggiore ragione se ciò venisse sanzionato da un formale voto al Senato.
In queste condizioni, a che titolo i rappresentanti che costituiscono il “premio” alla coalizione vincente permangono in Parlamento? Non ci sentiamo di argomentare che sul piano giuridico essi dovrebbero decadere, anche se auspichiamo lumi in tal senso dai costituzionalisti.
Ci sentiamo invece fortemente legittimati a pretendere sul piano politico che costoro – più o meno intrusi - non concorrano a costituire nuove maggioranze. Sarebbe paradossale infatti che un nuovo governo possa nascere con il voto di rappresentanti che sono lì per premiare una coalizione che non esiste più, falsando quindi il principio di rappresentanza parlamentare.
Ci auguriamo quindi che il Presidente della Repubblica sciolga le Camere e chiami gli elettori a individuare una nuova maggioranza a cui conferire il legittimo premio che gli spetterebbe.






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Se il sistema politico non funziona la colpa è dei partiti canaglia

Esiste un equivoco nella politica italiana, quello del bipolarismo.
l bipolarismo viene presentato da molti esponenti di partiti minori come il risultato storicamente positivo, il lascito realista e ragionevole, dell’illusione maggioritaria che fra il 1993 ed il 1996 sembrava regnare sovrana.
Questa difesa apparentemente convinta contiene un’insidiosa e implicita denigrazione di un sistema politico che dovrebbe essere saldamente ancorato alla contesa fra una destra e una sinistra moderate.
Il ragionamento sotteso alle tante prese di posizione dei difensori pelosi del bipolarismo può essere così sintetizzato: considerato che l’Italia non può, per struttura sociale e per tradizione culturale, fare a meno di una molteplicità di partiti, il bipolarismo è il massimo che si può ragionevolmente ottenere. Il risvolto implicito, ma facilmente deducibile, di una simile posizione è questo: se il bipolarismo rissoso è tutto quanto si può ottenere, allora è meglio tornare al sistema centrista che aveva caratterizzato le precedenti stagioni politiche. Si tratta, è appena il caso di ricordarlo, di una visione del tutto falsa e deformata della realtà. Per intenderlo basteranno alcuni sommari riferimenti al nostro recente passato.
Tra il 1993 ed il 1994, il sistema politico italiano si ridisegna empiricamente su di un asse destra/sinistra come tutte le democrazie competitive.
Alle macerie della prima repubblica, grazie soprattutto all’intuizione di Berlusconi, si fa strada l’idea che occorrano governi designati direttamente dall’elettorato al momento delle elezioni politiche, i quali restano in carica per una legislatura sulla base di un programma di massima.
Questo presuppone un drastico sfoltimento di quello che i politologi chiamano il formato partitico, e un correlativo rafforzamento dei poteri del premier, designato al momento delle elezioni. Tale processo viene interrotto da un combinarsi di fattori (offensiva giudiziaria antiberlusconiana, un presidente della repubblica schierato a difesa degli assetti centristi, partiti minori disposti a tutto pur di sopravvivere) che si traduce nel ribaltone dell’autunno 1994.
Con il governo Dini il processo di riscrittura materiale della costituzione rallenta e si inquina. Alla fine quello che si riesce a salvare è il bipolarismo.
La contesa politica vede alternarsi governi designati dal popolo (il primo Prodi, Berlusconi nel 2001) con governi di schietta marca partitocratica (D’Alema 1 e 2, Amato), perché non legittimati dal voto popolare.
Al momento delle elezioni politiche sembra di essere in un sistema quasi bipartitico.
Passate le elezioni riprendono piede le cattive abitudini partitocratiche (verifiche, vertici di partiti, rimpasti gestiti con il manuale Cencelli). Intanto le istituzioni vengono rimodellate secondo le esigenze dei partiti piccoli: gruppi parlamentari con pochi eletti a formazioni che non si sono presentate alle elezioni, accesso facile al finanziamento pubblico ai partiti (e a una stampa di partito non letta da nessuno). Insomma alle elezioni gli elettori votano tutti o il centro-destra o il centro-sinistra sperando di avere un governo stabile. Passate le elezioni, però, i tempi e i modi del confronto politico sono dettati dai piccoli partiti che appestano le coalizioni di cui fanno parte.
Certo, le retoriche cui i vari partitelli fanno ricorso sono diverse fra di loro: massimalismo e antioccidentalismo a sinistra, federalismo pseudoetnico da parte della lega, compostezza filodorotea nelle formazioni neocentriste. Pure, l’effetto sistemico è lo stesso impedire che la vita pubblica sia una contesa fra policies empiricamente verificabili, ma resti un universo autoreferenziale attraversato da pulsioni identitarie e obbligato a riti bizantini.
In sostanza, se il sistema politico italiano non funziona in modo soddisfacente, questo non dipende da una incurabile disgregazione della società italiana, ma da una ragione tutta politica.
Il peso predominante di quelli che si possono definire "partiti-canaglia". Cioè formazioni che, per quanto obbligate a collocarsi stabilmente su di un determinato lato dello schieramento politico, perseguono lo scopo di impedire la normale dialettica fra una destra e una sinistra moderate.
In definitiva i partiti-canaglia sono l’ultima incarnazione del trasformismo italiano. Se per liberarsi di questa tabe occorre mandare all’aria il bipolarismo malato, ben venga il dialogo fra Berlusconi e Veltroni, per arrivare all’approdo necessario della politica italiana, un bipartitismo maturo.

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Veltroni: “Necessario uscire da coalizioni forzose”

Il capo del Partito Democratico e Sindaco di Roma, Walter Veltroni, mette le carte in tavola spiazzando alleati e oppositori e dice di voler correre da solo, il suo partito si presenterà alle prossime elezioni con le sue liste, senza alleati scomodi.
“Quale che sia il sistema elettorale, - ha dichiarato Veltroni - voglio dire con chiarezza che il Pd si presenterà con le liste del Partito democratico. E se Forza Italia avesse il coraggio di fare altrettanto sarebbe un'enorme conquista per la democrazia italiana”. Dunque FI è avvertita: se si presenterà alle elezioni come partito unico, allora ci sarà magari spazio per il dialogo, altrimenti si rischia lo stallo politico, come è successo in passato. Il che si deduce dall'altra affermazione del primo cittadino di Roma secondo cui si deve “uscire da coalizioni forzose e così eterogenee che ripropongono nei governi la logica dei veti e dei condizionamenti che esistono in Italia”.
Da sinistra soltanto critiche contro le affermazioni di Veltroni, tra cui quella di Franco Giordano, segretario di Rif. Com.: “Se il Pd sceglie di andare da solo è una scelta di Veltroni che rispetto, ma non credo che sia il massimo per garantire l'attuale governo, e in questo senso il Pd si dimostra il più grande fattore di instabilità”




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Governo ammalato, non basta un’aspirina

Come un castello di sabbia. Come la neve al sole. Giovedì 17 gennaio Romano Prodi parla alla Camera, dopo aver assunto l'interim della Giustizia lasciato dal dimissionario Mastella, e tutto sembra chiuso. Risolto. L'ennesima crisi mancata. E invece no. Questa volta si sta sfasciando tutto. Ma proprio tutto. Venerdì 18 gennaio arriva la bomba dell'Udeur: o tutta la coalizione sostiene le parole dell'ex Guardasigilli, ovvero l'affondo contro la Magistratura, oppure non c'è più la maggioranza. E' la fine. Né Di Pietro, né il Partito Democratico, né la sinistra radicale potranno avallare l'attacco ai giudici. Così si rivela corretta la previsione di Affari: la panacea del buon Professore, che seraficamente voleva chiudere tutto nel giro di poche ore, non è servita a niente. Il malato è grave, gravissimo. In terapia intensiva, in coma. In coma profondo. Non solo l'esecutivo, appeso alla Montalcini, ma anche il sistema politico. Gli italiani non arrivano a fine mese e la casta, il Palazzo, pensa ad altro. Litiga con i pm, si accapiglia sul sistema tedesco, spagnolo e francese. Non ci siamo. A questo punto servono soluzioni all'altezza della crisi profonda. Stop alle maggioranze risicate e in balia dei ricatti di quel senatore o di quel micropartito. L'unica via d'uscita è un esecutivo del Presidente, o di decantazione. Chiunque sia il premier, ma che faccia riprendere il fiato al Paese e affrontare seriamente i problemi dell'economia. Anche quelli gravissimi. I partiti facciano chiarezza, con o senza referendum, e poi si ritorni alle urne nel 2009, insieme alle Europee. Dopo un sano periodo di purga per i politici, sempre più lontani dal Paese reale. (Da: http://www.affariitaliani.it/)



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La metà di una svolta

GOVERNO E GIUDICI



Fino a poco tempo fa, accusare la magistratura inquirente di «eversione » era stata una cattiva abitudine degli inquisiti del centrodestra. Poi, negli ultimi mesi, con le inchieste Forleo e de Magistris su rappresentanti del centrosinistra, la cattiva abitudine aveva contagiato anche questi ultimi. Ma si era trattato di casi che, pur dividendo il Parlamento fra chi accusava e chi difendeva la magistratura sulla base della collocazione politica dei propri inquisiti di turno, non avevano ancora assunto la natura di un generalizzato conflitto fra potere politico (legislativo e esecutivo) e ordine giudiziario. Con il caso Mastella ad accusare i magistrati è stato addirittura il Guardasigilli, cioè uno dei ministri più importanti del governo (di centrosinistra), inquisito anch’egli, con la moglie e alcuni dirigenti del suo partito. E fin qui, nulla di nuovo sotto il sole. Ma, questa volta, il Parlamento non si è diviso. Ad accogliere con una ovazione le parole di Mastella è stata la grande maggioranza della Camera dei deputati, senza distinzioni fra centrodestra e centrosinistra.
Si è trattato solo del riflesso condizionato della Casta che, di fronte al crescente dinamismo della magistratura, ha difeso uno dei propri rappresentanti per difendere se stessa? Ovvero si può parlare di una reale svolta politica destinata a produrre un serio ripensamento dei rapporti fra potere politico e ordine giudiziario? A chiarirlo dovrebbe essere il dibattito che si aprirà in Parlamento dopo il rapporto sullo stato della Giustizia che Prodi farà fra qualche giorno come Guardasigilli ad interim. Ma le premesse non inducono all'ottimismo e qualche interrogativo sembra lecito. Nel rinnovargli la fiducia e invitandolo a ritirare le dimissioni, il presidente del Consiglio ha inteso condividere i severi giudizi del suo ministro della Giustizia sulla magistratura? Sarebbe interessante saperlo. Ma nel suo breve intervento alla Camera, Prodi, auspicando che l'Udeur, il partito di Mastella, non faccia ora mancare il suo sostegno al governo, era parso più preoccupato della propria sopravvivenza a Palazzo Chigi che di dare una risposta all'interrogativo. Prodi— ha detto al riguardo Casini subito dopo — ha rimosso, ha derubricato il caso Mastella «a scopo privato».
Del resto, nell'aula di Montecitorio, durante tutto il dibattito, sono aleggiati, a seconda del colore politico degli interventi, più il timore ovvero l'auspicio della caduta di governo che la responsabile consapevolezza della gravità della crisi e il concreto impegno a risolverla. La sindrome che paralizza il sistema politico rischia di affogare nelle chiacchiere anche questa inderogabile esigenza. Eppure, il problema, a questo punto, non è più la durata del governo, ma la stessa sopravvivenza della democrazia. Ciò che ci si aspetta è che il Parlamento faccia finalmente una riforma del sistema giudiziario che ponga definitivamente fine a una situazione ormai giunta a un punto di rottura dopo il fallimento della riforma Mastella, approvata, anche, nell'illusione di compiacere la corporazione dei magistrati. È troppo chiederlo?


di Piero Ostellino



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Sabato 19 gennaio a Bari manifestazione regionale di AN su “Le tappe del disastro”

Il consigliere regionale e presidente provinciale AN di Bari, Tommaso Attanasio, ha diffuso la seguente nota.
“Sabato 19 gennaio a Bari, Alleanza Nazionale terrà l’annunciata manifestazione regionale su “Le tappe del disastro”, con una mobilitazione che dal resto della Regione farà convergere sul Capoluogo oltre 150 pullmann di militanti e simpatizzanti. Essa si articolerà in un corteo che partirà alle ore 16 dall’ “epicentro” del disastro pugliese e cioè dal Palazzo della presidenza della Giunta regionale sul Longamere Nazario Sauro, per poi proseguire per la vicina sede della Provincia di Bari e raggiungere il Palazzo di Città, per toccare emblematicamente i luoghi del fallimento dei governi locali di sinistra. Si concluderà con un comizio in Piazza San Ferdinando nel quale prenderanno la parola il presidente nazionale del Partito on. Gianfranco Fini, che parteciperà anche all’assemblea regionale che si svolgerà in mattinata e al corteo, e la coordinatrice regionale on. Adriana Poli Bortone.
I contenuti politici (Fisco, Sanità e servizi sociali, emergenza-rifiuti, politiche di sviluppo, infrastrutture) e gli aspetti logistici della manifestazione saranno ulteriormente illustrati in una prossima conferenza-stampa dal coordinamento regionale del Partito.
AN invita a partecipare tutti i Pugliesi che non condividano i salassi fiscali, lo sfascio dei conti regionali ed il degrado dei pubblici servizi in atto”./com.to



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Meglio nessun accordo che un accordo monnezza sulla legge elettorale

Questa settimana sarà probabilmente decisiva per la sorte della legge elettorale. Da un mese me ne occupo quasi a tempo pieno, al punto che nei week end avverto un insopprimibile bisogno di ragionare prescindendo da soglie di sbarramento, circoscrizioni, metodi di ripartizione dei seggi e tutti i diabolici meccanismi di cui è infarcita la materia.
Inoltre, alla vigilia della scelta decisiva, non può essere elusa una questione che nulla ha a che fare con i tecnicismi del tema: nel tempo intercorso dall’incontro tra Berlusconi e Veltroni che ha suggellato il tentativo d’accordo, cosa è cambiato nei rapporti tra i due schieramenti? Si è rafforzata o no la consapevolezza che un reciproco riconoscimento è indispensabile per l’inaugurazione di una nuova stagione politica?
A essere onesti, il bilancio è piuttosto magro. Si è lavorato insieme, e con buon spirito di collaborazione, al tentativo di condurre in porto la riforma elettorale. Si è evitato, da una parte e dall’altra, di abboccare alle provocazioni e ai tentativi dei rispettivi alleati di ottenere una sconfessione dell’accordo. Ma al di là di questi esercizi di stile, assai poco può essere contabilizzato.
Per quanto concerne il tema specifico della riforma elettorale, si è dovuto registrare una evidente debolezza parlamentare del nuovo segretario del Partito Democratico. Sicché, incalzate dall’esterno ma ancor più dall’interno del suo stesso partito, le ipotesi originarie presentate a Berlusconi hanno subito nel corso del tempo progressive revisioni al ribasso. Al punto che, giunti alla stretta finale, non è ancora chiaro se si riuscirà a salvaguardare un’ipotesi che consenta ancora che la scelta del governo la facciano i cittadini. Ovvero, si vorrebbe che ci si rassegni a un ritorno al passato, quando tipo e composizione dell’esecutivo (premier compreso) erano determinati dopo il voto dai partiti.
Ancora più preoccupante è il coagularsi intorno all’attuale premier di un fronte che non intende in nessun modo avviare una fase di distensione e tanto meno vuol rinunziare alla risorsa politica dell’antiberlusconismo: una sub-coalizione che comprende settori ampi del Pd (che pure, in gran parte, hanno collaborato al trionfo plebiscitario di Veltroni), tutti i “piccoli” dell’Unione e che per di più può contare sull’appoggio esterno del c.d. “partito di Repubblica” il quale, non casualmente, da quando è apparsa all’orizzonte la prospettiva del dialogo è tornato ad appoggiare Prodi senza se e senza ma.
Questo schieramento non si è limitato a cercare d’ostacolare in ogni modo il percorso di una “riforma condivisa”. E neppure gli è bastato mettere in azione la giustizia a orologeria. E’ giunto ad invocare la necessità e l’urgenza di riforme punitive nei confronti del centro-destra e del suo leader (legge Gentiloni e conflitto d’interessi), con il sin troppo evidente scopo di scaraventare contro un ancora fragile dialogo non delle pietre ma dei veri e propri macigni.
Sicché, oggi ancor più di ieri, appare evidente che la strategia di reciproco riconoscimento non può proseguire in vigenza dell’attuale governo. Perché mentre Veltroni sta, dal suo punto di vista, correttamente tutelando la vita dell’esecutivo limitandosi alle interviste di rito, Prodi utilizza spregiudicatamente tutte le armi in suo possesso per boicottare la prospettiva politica tracciata dal leader del Pd. Questa strategia, d’altro canto, se non gli è servita a guadagnare consensi all’esterno, è stata utile per rafforzarlo all’interno del centro-sinistra. Non vi è dubbio che, rispetto a un mese fa, egli appare esser messo meglio in sella.
Di tutto ciò al nascente Popolo delle Libertà non basta prendere atto. Deve anche ricordarsi della sua ancor fresca genesi. Il “dialogo berlusconiano”, infatti, deriva in linea diretta dalla “rivoluzione del predellino”: non da una riflessione elitaria e di vertice. E’ piuttosto derivato da un movimento di popolo manifestatosi attraverso i gazebo, che ha chiesto di uscire da un sistema di veti e tatticismi per guadagnare una forza d’opposizione più chiara e più netta nei confronti del peggior governo che la Repubblica abbia mai conosciuto.
Per questo il berlusconismo oggi non si può far irretire all’interno di un accordo, per quanto importante: se questo manterrà un minimo di coerenza bipolare è bene; in caso contrario si dirà no, attendendo il referendum. E’ invece realmente urgente riprendere la mobilitazione di popolo contro questo governo. Nella consapevolezza che se fosse capitato al centro-destra fare ciò che è stato in grado di combinare il centro-sinistra sulla questione dei rifiuti – da Bassolino fino alla nomina di De Gennaro – sarebbe stato difficile sfuggire al linciaggio.
L’etica della responsabilità non basta. Facciamo sentire, almeno un po’, l’etica della nostra convinzione. Rimettiamo su questo tema i gazebo in piazza e, se l’accordo che ci verrà proposto sulla legge elettorale sarà, infine, “una mondezza”, disinteressiamocene per privilegiare un’altra tipologia di mondezza: quella vera.


di Gaetano Quagliarello



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Una class action contro il cratere problemi nella realizzazione del parcheggio al centro di un´azione legale per le ricadute negative

Residenti e commercianti di piazza Cesare Battisti sono pronti alla class action. Il nuovo strumento giuridico in vigore dall´inizio dell´anno potrebbe essere utilizzato per la prima volta in Puglia dai cittadini baresi danneggiati dal cantiere infinito che sorge tra palazzo Ateneo e Giurisprudenza. Se entro la fine di queste mese non riceveranno risposte in merito alla ripresa dei lavori per la realizzazione del parcheggio interrato, i membri del comitato di piazza Cesare Battisti intraprenderanno la strada dell´azione collettiva contro la Dec.I ritardi nella realizzazione dell´opera accumulati, per varie vicende, dalla ditta di costruzione della famiglia De Gennaro hanno causato - sostengono i commercianti - rilevanti danni economici a tutti gli esercizi commerciali che sorgono attorno a piazza Cesare Battisti. Crolli del fatturato, fallimenti, calo delle vendite superiore al quaranta per cento: gli effetti negativi prodotti dal cantiere infinito che da quasi tre anni angusta il Murattiano, secondo gli esercenti, sono evidenti e documentabili. Per questo i commercianti danneggiati hanno discusso nei giorni scorsi della possibilità di intentare un procedimento collettivo di carattere risarcitorio nei confronti dei responsabili delle loro perdite.La class action è stata introdotta nel nostro ordinamento giuridico da meno di due settimane. Il Governo Prodi, con un decreto legislativo, ha messo a disposizione dei cittadini italiani questo strumento risarcitorio molto in voga negli Stati Uniti. Ma la novità giuridica potrà essere utilizzato solo a partire da giugno. Prima dell´estate, infatti, le cancellerie dei tribunali italiani non saranno in grado di accettare le domande e dare avvio al procedimento.Ma se la situazione del parcheggio non si sbloccherà entro la fine di queste mese i commercianti e i residenti di piazza Cesare Battisti affideranno a un legale il compito di preparare la documentazione. A giugno vogliono essere i primi a utilizzare questo nuovo strumento giuridico. «Ma anche molti residenti ci stanno facendo sapere di voler partecipare ad un´azione risarcitoria - spiega il commerciante Stefano Milano, portavoce della protesta - anche loro sono stati danneggiati da questo parcheggio che ha degradato l´intera area dal punto di vista igienico e ambientale».
A meno di un mese dalla bonifica del cantiere, piazza Cesare Battisti è ripiombata nel degrado. Adesso l´acqua che per lunghi mesi aveva invaso lo scavo viene prosciugata con regolarità dalla Dec. Ma sotto il lago che anche ieri occupava parte della piazza, è rimasta una coltre di rifiuti. Molti cittadini utilizzano lo scavo come bidone dell´immondizia. E dopo quasi tre anni dalla sua apertura i risultati cominciano a diventare evidenti. Anche la passerella di legno che attraversa la piazza sventrata era stata tirata a lucido e adeguatamente illuminata nelle scorse settimane. Con l´impegno, assunto dall´Amiu, di una regolare pulizia. Eppure ieri l´angusto attraversamento era cosparso di escrementi.Ma i cani e i loro padroni incivili questa volta non centrano. Di notte la passerella di piazza Cesare Battisti si trasforma in bagno pubblico. Molto frequentato dai clienti dei pub della zona. L´effetto risanamento è finito dopo pochi giorni e gli abitanti di piazza Cesare Battisti sono tornati sul piede di guerra. Nei prossimi giorni un comitato di cittadini incontrerà prima l´assessore comunale all´Ambiente Maria Maugeri, incaricata dal sindaco di seguire il procedimento per la valutazione d´impatto ambientale a cui sta lavorando la Provincia. E poi la responsabile ai Lavori pubblici, Simonetta Lorusso. Poi, se non arriveranno risposte concrete entro la fine di queste mese, sono già pronti a scendere in piazza nuovamente.La data per l´ennesima manifestazione di protesta è stata fissata per il prossimo 29 gennaio. Ma in piazza Cesare Battisti sperano che nel frattempo arrivino buone notizie sul fronte del cantiere. I sessanta giorni di tempo che la Provincia ha avuto a disposizione per rispondere alla richiesta di Via presentata dalla Dec, infatti, scadranno il giorno 26.


di Paolo Russo


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Un nome e un cognome sopra Monnezzopoli/Pecoraro Scanio punta il dito su Romiti e l'Impregilo. Ecco perché. Gli affari d'oro del pattume

a tutti gli altri: Cesare Romiti". Alfonso Pecoraro Scanio, intervistato da Repubblica, lancia un nome (avvertimento?). Uno di quelli pesanti. Ma perché il ministro ce l'ha con il grande Cesare, già presidente della Fiat e della Gemina, la finanziaria che controlla Rcs, nonché numero uno, fino al 2006 dell'Impregilo? Perché, proprio per l'Impregilo, dietro la monnezza maleodorante di Napoli si nascondeva, fino a quando i magistrati non hanno fermato tutto, buona parte del fatturato. E perché l'Impregilo, nell'annosa emergenza che sta vivendo la Campania , ha un ruolo di primo piano. Affari può spiegare quale.L'INCHIESTA - Il 26 giugno 2007 Impregilo crolla a Piazza Affari. Dopo aver aperto a 5,38 euro, inizia il tracollo borsistico: nel giro di pochi minuti arriva a oltre -10 per cento. A determinare la caduta è la Procura di Napoli, che decide per il sequestro di 750 milioni di euro, prelevati direttamente sui conti correnti bancari di Impregilo, Fisia Italimpianti, Fibe e Fibe Campania. Ma i magistrati napoletani Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo, coordinati dal procuratore Camillo Trapuzzano, decidono di mandare sulla graticola anche 28 persone, oltre a interdire per un anno l'Impregilo dalle contrattazioni con la pubblica amministrazione. Tra queste Piergiorgio Romiti e Paolo Romiti, l'ex vicecommissario, Raffaele Vanoli, l' ex sub commissario Giulio Facchi, tecnici del commissariato di Governo come Giuseppe Sorace e Claudio De Biasio, gli amministratori delegati di Fibe (la società di Impregilo capofiliera nello smaltimento), Armando Cattaneo e Fisia, Roberto Ferraris. L'ipotesi di reato è truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato e frode in pubbliche forniture. Nel novero degli imputati c'è anche quello di Antonio Bassolino, presidente della Regione nonché commissario straordinario per l'emergenza rifiuti dal maggio 2000 al febbraio 2004. E' lui che ha firmato l'appalto con Impregilo. Ma perché i pm stanno a trascinando alla sbarra il salotto buono della finanza, in mezzo ai liquami di un'emergenza infinita?L'ORO CHE PUZZA - Al principio, nel 2003, furono le denunce sul trattamento dei rifiuti, delle discariche e dei siti di stoccaggio. Con Bassolino che stava a guardare un sistema che per la Procura non poteva funzionare. Anzi, peggio. Per i pm, infatti, tutto avveniva "con la complicità e la connivenza di chi aveva l’obbligo di controllare e di intervenire e non l’ha fatto per troppo tempo". Altre parole, altre pietre. "E' apparso evidente che il comportamento delle società non appariva lineare", "pur essendo consapevoli, fin dall’inizio, che lo smaltimento dei rifiuti non avrebbe potuto funzionare, hanno fatto di tutto per dissimulare tale situazione".
Un comportamento che si è protratto nel tempo "ponendo in essere una serie di artifici e raggiri per mantenere le posizioni raggiunte". Ancor più netto il procuratore Giovandomenico Lepore, che su Bassolino non usa mezze parole: "Se fosse intervenuto quando doveva farlo, l’emergenza rifiuti non sarebbe arrivata al punto in cui è ora". La politica si difende, ovviamente, prima di tutto con Fassino: "L’accertamento dei fatti dimostrerà l’assoluta correttezza delle sue scelte". LO SMALTIMENTO CHE NON C'E' - Quanto costa un chilo di rifiuti smaltito? Poco più di 4 centesimi. Tanto sarebbe stato pagato a Impregilo per ripulire la Campania. Quindi , sapendo che la regione produce oltre 7mila tonnellate di pattume al giorno, l'affare è di circa 110 milioni di euro all'anno. Ai quali poi bisogna aggiungere le ecoballe. Dopo aver infatti "smaltito" i rifiuti, circa la metà sarebbero diventati combustibile da mettere nei termovalorizzatori. Producendo quindi energia. E monetizzando dal pattume altri 100mila euro al giorno. Anzi, le ecoballe a un certo punto si trasformano in futures, in azioni, in garanzie delle banche. Perché l'Impregilo usa proprio gli introiti previsti dallo smaltimento per garantirsi parte del credito dal sistema bancario. E da Napoli, improvvisamente, la storia si sposta a Milano, in piazza Affari.Tanti soldi, dunque. Ma alla fine dove finivano i rifiuti? Semplicemente, da nessuna parte. Non certo smaltiti. Al massimo infilati in qualche buco dal quale il liquame cola nella falda, avvelenando le coltivazioni, i pascoli, le produzioni di pomodori e mozzarelle di bufala. Perché, come ha scritto la Procura , "il sistema non poteva funzionare". Anche perché Bassolino "non impediva, realizzava e consentiva la perpetua violazione degli obblighi contrattuali assunti dall'Ati affidataria in relazione alla gestione del ciclo dei rifiuti solidi urbani in Campania". Omettendo, inoltre, di "promuovere e sollecitare iniziative volte a garantire il rispetto dell'obbligo contrattuale" di ricezione da parte della Ati di tutti i rifiuti solidi urbani, e omettendo "di intraprendere iniziative dirette a contestare e comunque impedire le accertate violazioni contrattuali da parte delle società affidatarie".LE CONSEGUENZE - Andrea Annunziata, politico della Margherita, ha presentato tempo fa un'interrogazione illuminante al Premier e al Ministro dell'ambiente. Annunziata scriveva che le ecoballe avrebbero dovuto avere "un elevato potere calorico che avrebbe dovuto essere bruciato nei termovalorizzatori che dovevano essere realizzati nella Regione". Il resto, ovvero, la frazione organica stabilizzata, si sarebbe dovuta utilizzare addirittura in piani di recupero ambientale e non certo in discarica. Ma, stando alle rilevazioni della Procura, la frazione organica "non ha le caratteristiche per essere definita una frazione organica stabilizzata e raffinata..., e d'altra parte, uno degli indagati ha pacificamente ammesso che il processo di raffinazione e di stabilizzazione veniva saltato dalla ditta proprio perché la frazione organica non viene impiegata in funzione del recupero ambientale, ma va in discarica...". E, quindi, ad inquinare. Saltando la fase di raffinazione, l'Impregilo in pratica tagliava i costi e aumentava i ricavi.LE PERIZIE - In ogni tragedia c'è anche un lato tragicomico. Chi fa le perizie per la Procura di Napoli? L'Acea. Che, stando alle dichiarazioni di un altro parlamentare, Tommaso Sodano, "ha stretti contatti ed interessi con il gruppo Impregilo". I pm parlano di indagini scrupolose e di ottimo lavoro. E non è finita. Perché, prima della Acea, la Procura si rivolgeva all'ARPAC, l'organo deputato a questo lavoro in Campania. Peccato che, sempre stando alle parole di Sodano, "avendo un bel buco di alcuni milioni di euro, non ha i laboratori. Per cui si rivolgeva alla FIBE di Genova". E la Fibe che cos'è? Proprio la società della Impregilo sul territorio. La principale accusata dai pm napoletani. (Da: http://www.affaritaliani.it/)


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"Come ti avveleno i ciclisti"

Si parla in questi giorni di un progetto per realizzare una pista ciclabile lungo l’ex Viale Conte di Cavour e sarà bene ridiscutere l’idea che rischia di peggiorare le condizioni del traffico ed essere di grave nocumento per la salute dei cittadini che la vorranno utilizzare per i loro spostamenti in bici.Da una parte la pista è avulsa da un sistema ciclabile che viene rinviato ad anni successivi e, quindi, il percorso è troppo breve e fine a sé stesso, d’altra parte la pista si distende nel bel mezzo dell’arteria cittadina che più di tutte è percorsa dal traffico di bus extra urbani e da una grande mole di traffico privato.La pista, nel lodevole intento di incrementare l’uso della bicicletta per alleggerire il traffico, in pratica peggiora la viabilità della zona e riduce drasticamente il numero di posti auto per la sosta.Anche il previsto parcheggio a pettine sui lati della strada porterà ad un restringimento della carreggiata, anche in presenza di una criticabile riduzione dei marciapiedi, ed il sicuro effetto tappo al traffico in scorrimento sia per le operazioni di parcheggio che per le soste in doppia fila che provocheranno congestione al traffico con autobus e colonne di auto a motori accesi.Appare anche certo che le emissioni di gas di scarico e polveri, già al limite del consentito, aumenteranno e, probabilmente, sarà prudente dotare i ciclisti di maschere antigas e prevedere centri di riossigenazione alla fine della “salutare” pedalata.Per questi motivi è opportuno che l’amministrazione ripensi anche a questa iniziativa valutandone l’inopportunità per ubicarla in qualche zona dove la pedalata non implichi il pericolo di un avvelenamento da ossido di carbonio.E’ auspicabile che per il prossimo futuro si evitino operazioni “tanto per fare” e si vada avanti col progetto del sistema di trasporto metropolitano su rotaia, con le 49 stazioni previste, che è realizzabile in pochi anni e dislocato nelle principali aree urbane. Realizzazioni avulse da un piano complessivo della mobilità e intempestive possono invece solo portare danno. Alle finanze comunali, alla funzionalità urbana e alla salute dei cittadini. (Da: http://www.aziendabari.it)


di Giovanni Giua


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L’ex sindaco Di Cagno Abbrescia interpella il ministro "NEI MANIFESTI DELLA FESTA PURE IL LOGO DEL MINISTERO"

Le polemiche intorno alla festa del capodanno barese in piazza finiranno in Parlamento. L’ex sindaco Simeone Di Cagno Abbrescia, ora deputato di Forza Italia, ha infatti annunciato una interpellanza parlamentare al ministro per i beni culturali per porre un problema proprio in riferimento alla manifestazione:questo perché sui manifesti di annuncio della serata campeggia anche il logo del Ministero. «È grave, gravissimo - afferma Di Cagno Abbrescia - che il Ministero risulti come organizzatore, ma senza autorizzazioni di alcun genere. Perché dunque si propaganda un evento come quello attribuendone la paternità anche alle istituzioni dello Stato? » . L’ex sindaco precisa di non voler entrare nel merito dello spettacolo e della sua qualità artistica. «Mi occupo della vicendav sotto il profilo politico e da amministratore, non con la pretesa di criticarlo sotto il profilo artistico, anche se ricordo tutte le critiche rivolte qualche anno fa a Valerio Festi da noi chiamato a Bari, lo stesso Festi che quest’an - no è stato chiamato alle Olimpiadi di Pechino e che porterà con sè anche il nostro Paulicelli». Le eccezioni sotto il profilo politico e amministrativo, dunque. L’on. Di Cagno Abbrescia sottolinea senza temere smentite: «Ci hanno raccontato che questa festa di Capodanno è stata a costo zero per il Comune, ma non è vero. Non è vero perché i fondi con i quali è stata pagata sono comunali, escono regolarmente dal bilancio comunale». Lo spettacolo di Capodanno è costato
complessivamente poco più di 250mila euro. Per far fronte a questa spesa, l’amministra - zione comunale ha attinto ai fondi incassati dalla Banca Nazionale del Lavoro in base al bando per l’assegnazione dell’incarico di banca tesoriera del Comune. «Quel bando - sottolinea Di Cagno Abbrescia - prevedeva che la banca vincitrice del concorso non solo praticasse tassi vantaggiosi e quant’altro, ma anche che riconoscesse alla amministrazione un contributo depositato nelle casse del Comune. Che poi l’amministrazione destini quelle somme a uno spettacolo oppure ad interventi sociali oppure ad opere pubbliche, questo è a discrezione della amministrazione stessa. Insomma - conclude l’ex sindaco - l’amministra - zione avrebbe potuto utulizzare diversamente questi stessi fondi, perché si tratta di soldi ormai del Comune: perciò non è vero che è stato fatto tutto a costo zero».
(Da: http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/)

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La vertenza-salari mette a nudo gli errori tattici del sindacato

Il modo è cui è stata aperta la “vertenza salari” (per utilizzare il “sindacalese-del-tempo-che-fu”) mostra a tutto tondo non solamente gli errori tattici del sindacato (evidenziati con ricchezza di dati da Alessio Maniscalco su L’Occidentale del 7 gennaio) ma anche il ritardo culturale di parte della sua leadership.
Tale ritardo riguarda sia il contesto istituzionale in cui sollevare, e risolvere, la “vertenza” sia soprattutto il ruolo della concertazione o del dialogo sociale in questo primo scorcio di XXI secolo e le modalità con cui affrontarlo. Uno dei maggiori sindacati italiani, la Cgil, è stato il grande tessitore dell’Unione con il cui vessillo la coalizione oggi al Governo si è presentata alla elezioni del 2006; viene correntamente indicato come il “king maker” di Prodi e dell’alleanza che lo tiene in piede. Per questa ragione, il ritardo culturale è tanto grave.
In primo luogo, tale ritardo si manifesta, nel breve periodo, nel non avere utilizzato il contesto istituzionale in vigore per lanciare la “vertenza”. Tale contesto ha il suo impianto nell’ormai datato, ma sempre vigente, “patto di San Tommaso” del luglio 1993, ribadito dai “patti sociali” (di Natale, per l’Italia e via discorrendo) che si sono succeduti negli ultimi tre lustri: esso prevede due “sessioni di politica dei redditi” l’anno – una in primavera prima della definizione degli indirizzi del Dpef ed una in autunno prima della messa a punto della legge finanziaria.
Paradossalmente, verosimilmente su iniziativa del Ministro del Lavoro Cesare Damiano (che conosce a menadito il “patto di San Tommaso” e i protocolli ad esso successivi) , le due sessioni si sono tenute (nonostante la prassi di organizzarle si fosse negli ultimi 15 anni poco a poco affievolita). E’ in questo contesto istituzionale che andava sollevata la “vertenza” non solamente perché in tale quadro si sarebbero potute individuare le risorse (ad esempio per gli sgravi fiscali) tramite le quali impostare una soluzione ma perché era la sede per definire il ruolo delle parti sociali in una politica di crescita con equità.
In secondo luogo, ed è questo l’aspetto di maggior rilievo, in tale contesto i leader sindacali avrebbero potuto, e anzi dovuto, trovare un accordo sulla natura stessa della loro strategia a lungo termine in un’Italia sempre più integrata con il resto dell’economia europea e internazionale. Su questa tema, cruciale per l’evoluzione delle evoluzioni industriali, i leader sindacali hanno posizioni molto differenti e per non farle esplodere in pubblico (rendendo necessario un confronto) hanno preferito ammantarle di un velo di ambiguità.
Tale manto viene da lontano. Ma – lo mostra proprio il modo in cui è stata sollevata, tardivamente e maldestramente la “vertenza” non promette di andare lontano.
All’inizio degli Anni Novanta, più o meno mentre di metteva a punto il “patto di San Tommaso”, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Ilo (un’agenzia tecnica dell’Onu dei cui organi di governo fanno parte rappresentanti dei sindacati mondiali, ed italiani) condusse una vasta rassegna delle varie modalità di concertazione e dei loro risultanti in un quadro sempre più caratterizzato da quella che allora veniva chiamata “la globalizzazione”.
In sintesi, occorreva distinguere tra due grandi categorie (e numerose sotto-categorie): la concertazione “difensiva” (diretta a “difendere” l’esistente – ed in certi casi a tornare al passato) e la concertazione “positiva” o “aggressiva” (diretta invece a modificare le strutture dell’economia, e della società, in linea con un’integrazione economica internazionale che nessun Paese e nessun sindacato era in grado di modificare).
Chiara la preferenza dell’Ilo (generalmente considerata agenzia “di sinistra” nel panorama Onu) per la concertazione “positiva” o “aggressiva”. Non per una posizione di principio od in base ad un ragionamento analitico ma per la constatazione che chi difende l’esistente è (in un mondo in rapido movimento) sempre destinato a soccombere.
Nel sindacato italiano ci sono leader che hanno metabolizzato l’esigenza di una concertazione “positiva” o “aggressiva” ma operano in una palude ancorata alla concertazione “difensiva”. Quindi, si preferisce restare nell’ambiguità. Ciò potrà portare qualche vittoria tattica, ma implica una sconfitta di medio periodo per i lavoratori. Che lo hanno compreso e (soprattutto quelli giovani) partecipano sempre meno alla vita sindacale.





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Italia dei Valori: campagna contro la «stangata» della giunta Vendola

l BARI. « L’Italia dei Valori è contraria nel metodo e nella sostanza al provvedimento sul bilancio di previsione: i partiti di maggioranza non sono stati consultati nella fase di compilazione del bilancio e soprattutto si colpiscono indiscriminatamente tutti i cittadini». A dichiararlo è il coordinatore regionale dell’Idv di Puglia, Pier - felice Zazzera, dopo il via libera del consiglio regionale all’aumento delle tasse. «Esempio lampante è la soglia fissata per l’inasprimento della tassazione sull’IRPEF: i 28mila euro lordi (che vuol dire un reddito netto di 16.500 euro ovvero
uno stipendio mensile di circa 1.300 euro) rappresenta - spiega - il reddito medio della gran parte dei lavoratori e pensionati pugliesi. È quasi certo che a beneficiare del provvedimento saranno invece gli evasori fiscali. Come pure l’imposta sull’accisa dei carburanti, un odioso balzello che interessa indiscriminatamente tutti i cittadini già colpiti dal caro-petrolio. Siamo contrari - sottolinea Zazzera - alla scelta di scaricare sui cittadini gli errori di programmazione finanziaria e di gestione sanitaria che gli assessori hanno commesso, contravvenendo agli impegni presi con gli elettori. Macroscopici errori di gestione finanziaria come la sottovalutazione del deficit sanitario, o l’approvazione di provvedimenti senza il parere della ragioneria
o, ancora, l’ingiustificato aumento dei presidi chirurgici, medici e protesici, nonché di spese extrasanitarie (vedi l’in - cremento del costo per utenze telefoniche), sono alla base dell’inasprimento della pressione fiscale sui cittadini». La domanda, per l’Idv, a questo punto è una soltanto: «ma chi sbaglia paga? E questa domanda noi la proporremo ai pugliesi -
conclude - attraverso una campagna di affissioni e di incontri sul territorio in cui andremo a spiegare ai cittadini cosa contiene la manovra finanziaria».


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Monnezza e politica, arriva Letta

Le inquietanti vicende della monnezza a Napoli e in Campania mettono in luce, se ce ne fosse ancora bisogno, il limite e il degrado della politica e dimostrano che il plebiscito elettorale a favore del governatore di una importante regione e del sindaco di una grande città e la legittimazione basata su scelte leaderistiche non bastano per evitare il caos. Anzi, una pioggia di voti e di continui annunci del tipo "adesso vi faccio vedere io" non solo non producono progetti e atti concreti e innovativi ma non sono nemmeno in grado di garantire uno straccio di "buongoverno" che permette a una comunità di vivere civilmente. Evidentemente fra percentuali bulgare (quelle con cui è stato eletto Bassolino prima sindaco di Napoli e poi Presidente della regione Campania) e l'instaurazione di un "regime" politico il passo è breve e quel "regime" va ben al di là dei confini territoriali locali: con caratteristiche diverse e meno deflagranti è la prassi in molte realtà del paese, non solo al sud. Non solo a Napoli e in Campania c'è un inquietante deficit di democrazia: scelte decise e compiute in solitudine non confrontate nei consigli elettivi e men che meno con i cittadini. Dopo gli errori compiuti, nessuno chiede verifiche e quindi nessuno paga mai. Solo i cittadini pagano sempre.
Rispetto al fallimento generale - che non riguardano solo i rifiuti ma il mancato progetto di rinnovamento- le dimissioni dei vertici politici e istituzionali in Campania sono un obbligo morale, oltre che politico. Bassolino per primo deve prenderne atto del fallimento del suo progetto e agire di conseguenza, se non vuole essere di intralcio nel superare la drammatica fase di emergenza e nel riprendere un faticoso cammino almeno verso la normalità. L'uscita di scena del governatore è il primo atto per la svolta, perché l'umiliazione e la vergogna di una collettività locale non diventino l'umiliazione e la vergogna di una intera nazione.
Quel che sta accadendo è il frutto della malapolitica. Negli ultimi anni c'è stata una accelerazione nel calo di tensione morale e della qualità della politica e dei suoi gruppi dirigenti. Non solo a Napoli e in Campania, ma ovunque, governatori e sindaci (per lo più sotto comando delle segreterie dei partiti) hanno fatto nascere una pletora di assessori "esterni" (non votati da nessuno), consulenti, esperti, dirigenti a contratto, ovunque una marea di "raccomandati" ha occupato e occupa posti di grande responsabilità senza averne, per lo più, capacità e preparazione.
Una oligarchia nella casta, dirigenti mediocri e improvvisati nominati da governatori e sindaci, portati sulla tolda di comando e dintorni solo perchè amici o amici degli amici, raccatta tessere voluti da partiti sempre più personalistici, sempre più deboli, sempre più lontani dalla realtà e dalle esigenze dei cittadini. Da lì, da questa impostazione e da questi gruppi, nasce e si sviluppa un coacervo più invasivo e inquinante della monnezza napoletana, una piovra parassitaria e prepotente di trasformisti, qualunquisti, finti innovatori, che sguazza nei ricatti, nelle prebende, nei profitti derivati dal pubblico denaro sperperato solo per uno scambio atto a sostenere rendite economiche e costruire il consenso politico ed elettorale. E' questa la ragnatela che è tessuta nel napoletano e, più sotto traccia, in molte realtà del paese. In questa ragnatela s'inserisce una parte dell'imprenditoria senza scrupoli a cui s'aggancia con i suoi tentacoli velenosi la malavita organizzata.
In questo bailamme si assiste a una fuga di responsabilità a tutti i livelli. Domina il silenzio e il rimpallo delle colpe. Il Governo, con grave ritardo da oggi interviene con l'esercito a rimuovere i rifiuti, a tenere aperte le scuole. Basterà? E' incredibile il silenzio dei vertici del Partito democratico, dello stesso Veltroni. Come se le immagini di questa tragedia italiana che viaggiano per il mondo fossero affari di altri. Non è mai troppo tardi, almeno per ritrovare l'etica della responsabilità e la presa di coscienza dei propri limiti e del fallimento di una politica. In mezzo a tanto caos l'unica buona notizia è che tocca a Enrico Letta coordinare per il governo questo scatto di rinnovato impegno dell'esecutivo nazionale. Una prova da seguire. Per Letta l'occasione per dimostrare sul campo che gli italiani possono ancora sperare.



Di Massimo Falcioni



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Contro il '68/ I giovani della rivoluzione? Fanatici e violenti. Noi trentenni di oggi siamo molto peggio: soli e molli.

L'estate scorsa il Ministro degli Esteri Massimo D'Alema, in un'intervista rilasciata a un settimanale, lamentava uno scarso impegno politico da parte della generazione a cui appartengo e rivendicava positivamente, quindi, la stagione del '68 di cui la sua generazione si è resa protagonista. Ne seguì un dibattito autoreferenziale, appassionante solo per i soliti ex.Purtroppo la "Molle Gioventù" di cui faccio parte, quella dei trentenni per capirci, si è sottratta alla discussione, dimostrando ancora una volta di essere incapace di prendere di petto la politica e la storia del Paese. Una debolezza intellettuale e culturale, quella dei trentenni italiani, che quotidianamente ho modo di certificare nel filo diretto radiofonico che tutte le notti conduco su Rtl 102.5. Voglio subito essere chiaro: non credo affatto che il '68 abbia prodotto nella società e nella politica una rivoluzione tale da offrire a tutti, soprattutto ai più giovani, l'opportunità di valorizzare il proprio talento e le proprie risorse personali. Quella stagione si è resa protagonista evidentemente di un fanatismo politico e culturale che ha saputo esprimersi perfino con la violenza delle parole e delle armi. Al contrario, la nostra generazione, apparentemente più apatica e disillusa, si batte tutti i giorni, magari in silenzio e senza la forza di un movimento politico rappresentativo, affinché negli ambienti di lavoro la meritocrazia, il talento e la passione prevalgano sulla spartizione partitocratica che la generazione di D'Alema, cioè la stessa che ha avuto il privilegio di vivere il ' 68, ha imposto pesantemente, negli ultimi quarant'anni, in tutte le aziende pubbliche italiane.
Nel nostro Paese migliaia di giovani, laureati e non, combattono quotidianamente, se pur senza un'adesione completa a un partito, per cambiare o almeno modificare le logiche di un sistema che la generazione del ' 68 ha contribuito ad alimentare e sostenere.Noi siamo un'altra cosa, e semmai dovessimo decidere di organizzarci per combattere contro qualcuno e quindi per il miglioramento della nostra qualità della vita, sicuramente non troveremmo nella generazione dei D'Alema dei complici, ma dei nemici anche un po' ipocriti. Questo però non giustifica affatto la mediocrità politica e culturale della "Molle Gioventù".Alla radio ricevo, tutte le notti, centinaia di sms e telefonate di ragazzi e ragazze già "stanchi", disillusi, sconfitti, tristi. Le loro voci hanno un tono agrodolce, alcuni sono anche non privi di buoni argomenti, altri teneramente conviti che "la società non ci offre spazi per emergere", altri ancora sofferenti perché "non possiamo accedere a un mutuo per comprarci la casa".Quella che emerge, ogni notte, è soprattutto una pericolosa e quasi vigliacca paura nei confronti della politica. I giovani italiani non conoscono il potere, non sanno cosa significa, non masticano la materia, ne hanno timore, lo contrastano con automatismo generazionale, ma soprattutto non hanno nessuna buona ragione per credere che un giorno il potere e la responsabilità potrebbero anche toccare a loro. Certo la generalizzazione è un rischio che si corre quando si parla di una categoria così vasta, allegra e gioiosa come quella dei ragazzi sotto i trent'anni, ma non c'è dubbio alcuno che in giro non si sente fame di vita, di esperienza, di sogno. I migliori della mia generazione sono pronti solo a giocare la partita esclusivamente da soli, in un'overdose di individualismo acuto.E pensare che basterebbe un gesto simbolico e di rottura per cambiare marcia: smettere di fare i "padri" e le "madri" dei nostri genitori insoddisfatti e frustrati, e cominciare a prenderli a schiaffi, costringendoli a tagliarci finalmente quel cordone ombelicale che ancora ci lega maledettamente a loro.


di Pierluigi Diaco



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IL CINISMO DELLA SINISTRA CONTRO IL SUD.

Se dovesse andare in porto il progetto di “federalismo fiscale” proposto- si badi bene- non da Bossi o dal famigerato “asse del Nord” che una leggenda metropolitana sinistrorsa voleva dominasse l’Italia nella passata legislatura, ma dal trio Prodi-Padoa Schioppa-Visco, la Puglia perderebbe 169 milioni di euro l’anno, la Basilicata 163 e la Calabria addirittura 384. Se si considera che già con queste dotazioni di Bilancio, che di fatto consentono alla Regione Puglia un margine di manovra di poco più di 600 milioni di euro, siamo- grazie alle brillanti prove di governo di Vendola e compagni- più o meno alla bancarotta, tant’è che si sta per attingere pesantemente dalle non certo pingui tasche dei Pugliesi senza peraltro alcuna certezza che questi sacrifici saranno sufficienti a colmare un buco che in realtà è molto più profondo di quanto si proclami, si può facilmente immaginare quale disastro si stia delineando al nostro orizzonte, tanto più ove si consideri che i fondi comunitari per le Regioni dell’”obiettivo 1” si esauriranno nel 2013, e che dopo d’allora dovremo far conto soltanto sulle nostre forze.
Fa veramente rabbia pensare che le nostre istituzioni non sono state rinnovate nei termini in cui tutti oggi sostengono essere necessario ed indilazionabile perché la sinistra demonizzò –ingannando gli Italiani- la grande riforma costituzionale varata nella passata legislatura, tacciandola da un lato di minare l’unità d’Italia proprio perché ne delineava un assetto federale peraltro già ampiamente operante, e dall’altro di un eccesso di autoritarismo nel momento in cui rafforzava i poter del Premier.
Ebbene, con buona pace del voto referendario che avrebbe dovuto con il suo esito sgombrare il campo una volta per tutte sia dal federalismo che dal premierato, la stessa sinistra che scatenò una violenta campagna denigratoria contro quei progetti oggi li riesuma senza alcun pudore, da un lato per recuperare un elettorato settentrionale nel quale è sempre più meritatamente minoritaria, dall’altro per allungare comunque i tempi della legislatura, nell’evidente consapevolezza di non avere molto da sperare da un eventuale ritorno alle urne. Se poi si considera che anche le altre riforme che la sinistra dice oggi di voler attuare sono le stesse che erano contenute in quella che ha fatto bocciare, dal superamento del bicameralismo perfetto con l’istituzione del Senato federale alla riduzione del numero dei parlamentari, mentre mancano soltanto- rispetto a quanto inutilmente varato nella precedente legislatura- proprio le garanzie che comunque erano state assicurate alla salvaguardia dell’unità nazionale, quale la tutela del primato dell’ “interesse nazionale” e la restituzione allo Stato delle competenze in materia di energia e grandi infrastrutture, non si può non denunciare il vergognoso cinismo di chi gioca con le nostre Istituzioni in funzione esclusiva dei propri interessi di parte del momento e pertanto non ha alcun titolo morale per atteggiarsi a campione del loro riformismo.
Ma la cosa più grave è il completo abbandono da parte dei nostri attuali governanti delle ragioni e degli interessi del Mezzogiorno, rispetto ai pure hanno esercitato per anni- dall’opposizione- una ossessiva appropriazione indebita a fini evidentemente di mera convenienza elettorale. Un abbandono che non si manifesta soltanto in questo proditorio progetto di federalismo fiscale, che avrebbero avuto il dovere di accantonare sia per un minimo di coerenza con le posizioni pregresse sia perché così aveva sancito il Popolo italiano- su loro richiesta- con il suddetto Referendum, ma che ha anche prodotto le depredazioni ai nostri danni della Finanziaria 2008, con il drastico taglio delle risorse per quel “credito d’imposta” che era rimasto l’unico concreto incentivo per le nostre aziende e con il sostanziale accantonamento del progetto di “aree franche urbane” per il pretesto di allargarlo al Nord.
Ed ancor più inquietante è che, a fronte di queste autentiche aggressioni, siamo praticamente senza difesa, con un Governo regionale che a Roma non riesce a trovare, ammesso peraltro che lo cerchi nella sconsolante sciatteria della sua azione, alcun ascolto, come abbiamo potuto amaramente constatare anche in occasione della sua pur estemporanea richiesta di dilazione del buco sanitario, rigettata con una sprezzante alzatina di spalle da quello che pur dovrebbe essere il loro Governo.
Credo sia giusto e necessario ricordare che con Fitto da Roma ottenemmo la restituzione senza alcun corrispettivo dell’Acquedotto Pugliese, la importantissima possibilità di concessione quarantennale per i nostri servizi aeroportuali ed il grande e strategico investimento di Alenia, non a caso l’ultimo dall’esterno effettuato sul nostro territorio, mentre il nostro Governatore combatteva e vinceva- per di più con un Governo nazionale a partecipazione leghista- la sua battaglia contro il famigerato Decreto 56/2000 sempre in materia di Federalismo fiscale che, sempre ad opera di un Governo di sinistra per di più presieduto da un presunto Pugliese come D’Alema, ci avrebbe provocato a regime una perdita devastante di 600 milioni di euro.
A conferma ulteriore di quanto ci sta costando esserci affidati ad un poeta comunista, che tutto può fare tranne che governare.


di Tommaso Francavilla


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