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Meglio nessun accordo che un accordo monnezza sulla legge elettorale

Questa settimana sarà probabilmente decisiva per la sorte della legge elettorale. Da un mese me ne occupo quasi a tempo pieno, al punto che nei week end avverto un insopprimibile bisogno di ragionare prescindendo da soglie di sbarramento, circoscrizioni, metodi di ripartizione dei seggi e tutti i diabolici meccanismi di cui è infarcita la materia.
Inoltre, alla vigilia della scelta decisiva, non può essere elusa una questione che nulla ha a che fare con i tecnicismi del tema: nel tempo intercorso dall’incontro tra Berlusconi e Veltroni che ha suggellato il tentativo d’accordo, cosa è cambiato nei rapporti tra i due schieramenti? Si è rafforzata o no la consapevolezza che un reciproco riconoscimento è indispensabile per l’inaugurazione di una nuova stagione politica?
A essere onesti, il bilancio è piuttosto magro. Si è lavorato insieme, e con buon spirito di collaborazione, al tentativo di condurre in porto la riforma elettorale. Si è evitato, da una parte e dall’altra, di abboccare alle provocazioni e ai tentativi dei rispettivi alleati di ottenere una sconfessione dell’accordo. Ma al di là di questi esercizi di stile, assai poco può essere contabilizzato.
Per quanto concerne il tema specifico della riforma elettorale, si è dovuto registrare una evidente debolezza parlamentare del nuovo segretario del Partito Democratico. Sicché, incalzate dall’esterno ma ancor più dall’interno del suo stesso partito, le ipotesi originarie presentate a Berlusconi hanno subito nel corso del tempo progressive revisioni al ribasso. Al punto che, giunti alla stretta finale, non è ancora chiaro se si riuscirà a salvaguardare un’ipotesi che consenta ancora che la scelta del governo la facciano i cittadini. Ovvero, si vorrebbe che ci si rassegni a un ritorno al passato, quando tipo e composizione dell’esecutivo (premier compreso) erano determinati dopo il voto dai partiti.
Ancora più preoccupante è il coagularsi intorno all’attuale premier di un fronte che non intende in nessun modo avviare una fase di distensione e tanto meno vuol rinunziare alla risorsa politica dell’antiberlusconismo: una sub-coalizione che comprende settori ampi del Pd (che pure, in gran parte, hanno collaborato al trionfo plebiscitario di Veltroni), tutti i “piccoli” dell’Unione e che per di più può contare sull’appoggio esterno del c.d. “partito di Repubblica” il quale, non casualmente, da quando è apparsa all’orizzonte la prospettiva del dialogo è tornato ad appoggiare Prodi senza se e senza ma.
Questo schieramento non si è limitato a cercare d’ostacolare in ogni modo il percorso di una “riforma condivisa”. E neppure gli è bastato mettere in azione la giustizia a orologeria. E’ giunto ad invocare la necessità e l’urgenza di riforme punitive nei confronti del centro-destra e del suo leader (legge Gentiloni e conflitto d’interessi), con il sin troppo evidente scopo di scaraventare contro un ancora fragile dialogo non delle pietre ma dei veri e propri macigni.
Sicché, oggi ancor più di ieri, appare evidente che la strategia di reciproco riconoscimento non può proseguire in vigenza dell’attuale governo. Perché mentre Veltroni sta, dal suo punto di vista, correttamente tutelando la vita dell’esecutivo limitandosi alle interviste di rito, Prodi utilizza spregiudicatamente tutte le armi in suo possesso per boicottare la prospettiva politica tracciata dal leader del Pd. Questa strategia, d’altro canto, se non gli è servita a guadagnare consensi all’esterno, è stata utile per rafforzarlo all’interno del centro-sinistra. Non vi è dubbio che, rispetto a un mese fa, egli appare esser messo meglio in sella.
Di tutto ciò al nascente Popolo delle Libertà non basta prendere atto. Deve anche ricordarsi della sua ancor fresca genesi. Il “dialogo berlusconiano”, infatti, deriva in linea diretta dalla “rivoluzione del predellino”: non da una riflessione elitaria e di vertice. E’ piuttosto derivato da un movimento di popolo manifestatosi attraverso i gazebo, che ha chiesto di uscire da un sistema di veti e tatticismi per guadagnare una forza d’opposizione più chiara e più netta nei confronti del peggior governo che la Repubblica abbia mai conosciuto.
Per questo il berlusconismo oggi non si può far irretire all’interno di un accordo, per quanto importante: se questo manterrà un minimo di coerenza bipolare è bene; in caso contrario si dirà no, attendendo il referendum. E’ invece realmente urgente riprendere la mobilitazione di popolo contro questo governo. Nella consapevolezza che se fosse capitato al centro-destra fare ciò che è stato in grado di combinare il centro-sinistra sulla questione dei rifiuti – da Bassolino fino alla nomina di De Gennaro – sarebbe stato difficile sfuggire al linciaggio.
L’etica della responsabilità non basta. Facciamo sentire, almeno un po’, l’etica della nostra convinzione. Rimettiamo su questo tema i gazebo in piazza e, se l’accordo che ci verrà proposto sulla legge elettorale sarà, infine, “una mondezza”, disinteressiamocene per privilegiare un’altra tipologia di mondezza: quella vera.


di Gaetano Quagliarello



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