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D'Alema e Veltroni non trovano l'Unione

E’ una carta disperata, quella che Massimo D’Alema prova a mettere sul piatto di una partita di poker che sembra già aver definito il suo esito finale. Una mossa con la quale il ministro degli Esteri uscente prova a gettare sabbia nell’ingranaggio del motore di una macchina già lanciata verso le elezioni.
L’idea dell’ex presidente dei Ds è semplice. Marini riesce a formare un governicchio per il rotto della cuffia? Ebbene, allora per tenerlo in vita bisogna indire il referendum elettorale in aprile. Dopodiché si vada pure alle elezioni. Come minimo a giugno, se non oltre, visto che per centrare l'obiettivo di un sistema elettorale compiuto si potrebbe arrivare ad allunare il brodo fino al 2009.
L’idea è spregiudicata. E nelle intenzioni punta a creare una crepa nel centrodestra visto che nella Casa delle Libertà c'è Gianfranco Fini, che quel referendum l'ha firmato. E c’è l’Udc che vede nel referendum la certificazione della fine della propria autonomia e della sua politica di distinguo dal resto della coalizione. Ma il tentativo, realisticamente, appare estremo e anche un po’ acrobatico, visto che la Casa delle libertà ricompattata fa sapere che l’unico scenario praticabile - caduto il governo con un premier scelto dagli elettori – è solo quello delle elezioni anticipate. Il voto, insomma, non può essere impedito o dilazionato da nulla. Tantomeno dalla sirena rappresentata dalla possibilità di togliersi subito un peso e un nodo intricato come quello del referendum che, comunque, si riproporrà dopo il responso elettorale.
Nel gioco delle parti che il Partito Democratico è costretto a mettere in scena, naturalmente, non tutti condividono questo tentativo dalemiano. Come al solito la linea veltroniana diverge, sia pure in maniera nascosta e sotterranea. Il sindaco di Roma è costretto a vestire l’abito del “dilazionatore” ma in cuor suo non disdegna affatto l’idea di andare subito al voto, in modo da potersi presentare nella sua missione solitaria e non logorare l’appeal del “nuovo”.
Nel suo ragionamento c’è spazio anche per la sconfitta, ma dovrà essere comunque una resa dignitosa, talmente dignitosa e innovatrice da costringere il nuovo governo di centrodestra a cercare un accordo sui grandi temi delle riforme. Il segretario del Pd, ufficialmente, offre il massimo sostegno a Marini ma, con i suoi, appare scettico sulla possibilità di andare avanti senza Forza Italia e anche poco convinto della possibilità di forzare la mano con una maggioranza risicata. Alcuni dei parlamentari più vicini al segretario del Pd assicurano che «non si può andare a raccogliere qualche voto qua e là», né è verosimile fare le riforme senza Berlusconi.
Come dire che Veltroni non ha intenzione di tradire se stesso e sporgersi sul cornicione del ridicolo appoggiando una riforma elettorale in senso “tedesco”, l’unica che forse potrebbe convincere l’Udc a cambiare idea e riaprire davvero la partita. Lo slogan è quello di Pietro Nenni: “Si faccia quel che si deve, avvenga quel che può”.
Sull’altro fronte il dalemiano Nicola Latorre, per ora, non esclude nessuna possibilità: «Marini cercherà di trovare un consenso largo per il governo». Ma se dovesse trovare solo una maggioranza risicata? «Vedremo - si limita a rispondere - Tutto quello che farà Marini avrà il nostro consenso».
In realtà, non sono in molti ad attribuire grandi possibilità al tentativo di Marini. Lo scenario su cui si scommette di più, anche nel Pd, è quello della rinuncia dopo aver constatato l’impossibilità di dar vita ad un governo.
Di certo resta il grande problema interno al Partito Democratico: quello della distribuzione dei poteri. Con lo Statuto del nuovo partito non ancora approvato il timore di uno strapotere del segretario resta fortissimo. Anche con questo si spiegano i tappeti rossi srotolati dai dalemiani al tentativo di Franco Marini di allungare la vita della legislatura. Il ragionamento condiviso è che non si può andare alle elezioni con il rischio di ribaltare gli equilibri interni al partito,attraverso un blitz veltroniano sulle candidature. Tanto più con l’attuale legge che, attraverso lo strumento del listino bloccato, affida l’intero potere di vita e di morte sui parlamentari al “capo” e alle segreterie.
Di fronte a questo scenario, insomma, l’insistenza su un “governo di scopo” nasconde soprattutto una priorità, o uno scopo, appunto: un soggettivo bisogno di fare chiarezza all’interno di un partito in cui la zona d’ombra dei poteri rischia di offuscare la stella dei leader di un tempo. Andato.(Da: http://www.loccidentale.it/)





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Il paese non può attendere: serve un'Assemblea Costituente per le riforme

Il quadro politico attuale non consente di fare previsioni sull’immediato futuro, ma, a prescindere dai possibili esiti della crisi politica che si è aperta con il ritiro dell’Udeur dall’alleanza di centro-sinistra, è evidente che quasi tutte le forze politiche condividono la necessità di avviare una grande stagione delle riforme. L’aggiornamento della Costituzione italiana, che ha appena compiuto sessant’anni, diviene un passaggio ineludibile per tentare di superare la delicatissima fase che il Paese sta attraversando.
Non si può trattare, peraltro, di interventi di revisione sporadici e di limitata portata; occorre, invece, apportare modifiche tali da incidere sul complessivo assetto ordinamentale.
Non è un caso che siano miseramente falliti tutti i grandi tentativi di aggiornare la Carta costituzionale avviati negli ultimi venti anni dagli attori politici che, contemporaneamente, continuavano a fronteggiarsi in Parlamento e nel Paese, secondo la normale dialettica tra maggioranza-opposizione (Commissione Bozzi nel 1983, Commissione De Mita-Iotti nel 1992, Commissione D’Alema nel 1997).
Analogamente, il disegno di legge costituzionale recante la modifica della II parte della Costituzione, approvato nella scorsa legislatura dalla coalizione del centro-destra, ha ricevuto la bocciatura della maggioranza dei cittadini chiamati al referendum costituzionale; scelta influenzata pesantemente dalla posizione di netta contrarietà assunta dal centro-sinistra e da una parte consistente dei media e del mondo accademico, che liquidarono la proposta con prese di posizioni spesso aprioristiche e talvolta velate da pregiudizi ideologici.
La proposta di un’Assemblea Costituente da eleggere esclusivamente al fine di riscrivere le regole costituzionali ed approvare una nuova legge elettorale risponde alla esigenza, avvertita non solo dai partiti ma anche dall’opinione pubblica, di separare idealmente la sede istituzionale del confronto politico da quella destinata a ridiscutere il modello costituzionale. Un tavolo inedito che, di certo, potrebbe favorire un dialogo costruttivo con l’apporto di tutte le forze politiche, formando un consenso il più ampio e trasversale possibile. Si potrebbe pensare ad una Assemblea Costituente, che combinando insieme componenti di democrazia rappresentativa e strumenti di democrazia diretta, sarebbe in grado di restituire il potere sovrano al popolo.
Un organismo eletto con il metodo proporzionale favorirebbe una maggiore rappresentatività e restituirebbe ai cittadini la decisione su un’organica ed articolata riforma istituzionale, volta ad adeguare le scelte fondamentali alle mutate condizioni storiche, sociali e politiche dell’Italia di oggi. Per l’altra metà la designazione dei componenti la Costituente potrebbe essere attribuita al Parlamento riunito in seduta comune, prevedendo una maggioranza qualificata, al fine di evitare la eccessiva politicizzazione delle scelte e garantire la selezione di soggetti, sulla base del prestigio, dell’equilibrio e della comprovata preparazione tecnica. Un’occasione da non sprecare per coinvolgere nel nuovo patto costituzionale tutte le forze politiche, non solo quelle nate successivamente alla Costituzione repubblicana, ma anche quelle considerate allora fuori dall’arco costituzionale, sì da caricare di significato il monito del Presidente Napolitano, secondo cui nessuno degli attuali partiti può rivendicare l’esclusività dei valori costituzionali, ma tutti possono guardare ai principi in essi espressi per affrontare le sfide del domani.
(Da: http://www.loccidentale.it/)


di Ida Nicotra


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È arrivata la bufera

Sono incline ad assolvere Romano Prodi. Chiunque al suo posto avrebbe fatto peggio di lui. Ma ora tocca a Veltroni tentare l'azzardo per uscire dal pantano dell'Unione

È stato sarcastico Clemente Mastella: "Veltroni vincerà le elezioni nel Duemilacinquecento dopo Cristo". Con tutti i guai che lo affliggono, il capo dell'Udeur ha trovato il tempo per farsi beffe del leader del Partito Democratico che ha deciso di andare da solo al prossimo confronto elettorale. Ma non è stato l'unico a bacchettare Superwalter. Un burbanzoso Massimo D'Alema gli ha dato dell'intempestivo. Rosy Bindi è risalita sul cavallo da sceriffa e si è messa in caccia di Walter il fuorilegge. Persino quel verdone di Paolo Cento non si è trattenuto: "Veltroni sta correndo verso una sconfitta solitaria". Ma è davvero così sciocco e avventurista il segretario del PD? Con la decisione di puntare soltanto sul proprio partito, senza alleanze preventive, sta realizzando un'inconscia vocazione al suicidio? Penso proprio di no. Superwalter si è limitato a prendere atto di quello che è accaduto a Romano Prodi, prima e dopo le elezioni del 2006. E ha avuto la schiettezza di dire che il centro-sinistra non esiste più. Non soltanto quello di oggi, la sciagurata Unione, ma anche quello di domani, se costruito con le stesse regole pazze.Su quali dati di fatto ha ragionato Veltroni? Immagino su quelli che i cronisti non cortigiani hanno visto nell'inferno vissuto da Prodi e dal suo sfiancato governo ormai alla fine. L'Unione, esempio tragico di iper-coalizione fra incompatibili, già prima del voto ha cominciato a sparare una raffica di no contro il proprio candidato premier. Il Prof voleva presentare una sua lista, distinta dagli altri partiti unionisti. Ma gliel'hanno impedito, nel timore di renderlo troppo forte. Allora, Prodi ha chiesto di poter contare su un numero consistente di parlamentari suoi e glie ne hanno concessi soltanto cinque. Prodi ha domandato di presentare la lista dell'Ulivo non soltanto alla Camera, ma anche al Senato. E la risposta è stata sempre no. Il motivo? Nessuno l'ha mai capito. Poi si è constatato che la presenza dell'Ulivo a Palazzo Madama avrebbe reso meno anoressica la maggioranza in quel ramo del Parlamento.
Nel frattempo i dieci partiti del centro-sinistra si stavano dilaniando sul programma della coalizione. Nessuno ha voluto rinunciare a nulla. Con un risultato alla Fantozzi: un messale di quasi trecento pagine, un monumento cartaceo all'impotenza vorace della casta unionista. Subito riflessa nella composizione del governo: un mostro di centodue o centotre fra ministri, viceministri e sottosegretari. Con una serie di dicasteri spacchettati, una minutaglia senza compiti reali e priva di portafoglio. Inventati al momento, per soddisfare le voglie di qualche pennacchione o pennacchiona. Infine, questa catena di errori è stata resa ferrea dall'errore più grande: la certezza arrogante di stravincere. Ce la ricordiamo la convinzione superba che l'epoca del cavalier Berlusconi fosse chiusa per sempre? Per l'intera campagna elettorale venne recitata la stessa litania: il Caimano è morto e sepolto, dopo il voto il Genio del Male dovrà fuggire da Arcore, per rifugiarsi all'estero. Un truppa giuliva di scrittori, polemisti, cineasti, comici, vignettisti si precipitò a dare l'assalto al cadavere del Berlusca. Tutta la campagna per il voto di aprile ebbe lo stesso segno presuntuoso e incauto. Sotto le tende dell'Unione si vide troppo di tutto. La fretta di considerare l'Unipol un incidente passeggero. Le candidature dei parenti, piazzati in posizioni blindate e scaraventati in Parlamento. Gli sprechi dei tanti ras nelle regioni e nelle città rosse. L'alterigia nel dichiarare (lo fece D'Alema) che Berlusconi, mandato al tappeto per sempre, non avrebbe potuto guidare neppure l'opposizione. La storia del dopo-voto, ossia la vita perigliosa del governo Prodi, è troppo nota per essere ripercorsa. Proprio mentre si apriva la crisi finale del sistema partitico, l'Unione ha consegnato al Prof un'automobile sfasciata in partenza, con pochissimo carburante (una maggioranza parlamentare troppo esigua) e un clima avvelenato dai contrasti feroci fra i passeggeri, i partiti unionisti. Sono stati loro i primi a tradire il patto con gli elettori. È ridicolo accusare di questo Mastella. Lui un fellone? Può darsi. Ma in coda a tutti gli altri.

E le colpe di Prodi? Confesso che sono incline ad assolverlo. Nelle condizioni che ho descritto, chiunque al suo posto avrebbe fatto assai peggio di lui. Possiamo imputargli di essere stato troppo cocciuto, una testa quadra reggiana. Ma per un premier queste sono qualità, non difetti. Nessuno può chiedergli di gettare la spugna prima del tempo, prima dei due voti di fiducia. Nel pretenderli è stato corretto. Tuttavia, suggerisco al Professore di non voler sopravvivere a se stesso. E gli rammento che, dall'aprile 2006 in poi, il famoso Fattore C, il suo portafortuna, troppe volte ha fatto cilecca. Veltroni ha ricavato molte lezioni da quello che è accaduto a Prodi. E ha fatto una scelta saggia nel decidere che il PD andrà da solo al voto, qualunque sia la legge elettorale. Pochi hanno riflettuto su un dato importante: Veltroni aveva preso questa decisione ben prima di annunciarla. In proposito, ho un ricordo che risale al 19 novembre 2007. Ero andato a intervistarlo per 'L'espresso' e gli avevo chiesto se la 'vocazione maggioritaria' del PD non fosse un'utopia. Come mi suggeriva il bottino elettorale dell'Ulivo nel 2006: il 31,3 per cento dei voti, un dato buono, ma per niente maggioritario. Sono andato a rileggermi la risposta di Veltroni alla mia obiezione: "Stia attento: i flussi elettorali sono molto più veloci e forti di quel che pensiamo. L'opinione pubblica ha una grande mobilità. Giudica l'offerta. Valuta il leader. L'elettorato di appartenenza va diminuendo. Quindi avere un grosso risultato elettorale è possibile. A condizione di essere quello che si è deciso di essere". Come direbbe un politologo patentato? Gli elettori reagiscono all'offerta politica modificando le proprie convinzioni e, dunque, il proprio voto. È possibile che l'offerta di Superwalter (un partito nuovo che si muove da solo) abbia successo. Qualche segnale si sta avvertendo. Certo, è una scelta rischiosa. Ma inevitabile per un leader che voglia uscire dal pantano dell'Unione.Davanti a Veltroni c'erano due strade. L'andare con lo schieramento di oggi, quello dei Dieci Partiti Rissosi, garantirebbe soltanto la sconfitta. L'andare da solo gli offre una speranza di vincere. Tra la certezza di perdere e la possibilità di farcela, per remota che sia, non esistono dubbi: meglio l'azzardo che la morte sicura. Non c'è leadership senza rischio. Del resto, ripetere lo sfascio dell'Unione sarebbe assurdo: meglio chiudere subito la bottega del PD. Di qui alle prossime elezioni, vicine o lontane che siano, Veltroni dovrà scalare l'Everest con le scarpe da tennis. Avrà contro anche più di un'eccellenza democratica, come stiamo vedendo. In più, la crisi del sistema dei partiti è al culmine. Siamo nella giungla. Vicini a una guerra civile parolaia e smargiassa. Il discredito montante rende la casta sempre più aggressiva e spietata, come succede sempre quando un regime sta morendo. La campagna elettorale sarà un salto nel caos. Chi ha visto alla tivù l'ultimo 'Ballarò' è rimasto atterrito dalla ferocia dello scontro fra Pecoraro Scanio, la Bindi e Casini. È arrivata la bufera, è arrivato il temporale: così cantava Renato Rascel, un famoso attore comico di tanti anni fa. Oggi accadrà di peggio. L'intolleranza armata, per ora soltanto di insulti, è diventata la condizione normale del dibattito politico. Chi può fermare questa discesa nel caos ha un obbligo al quale non può sottrarsi. Un vecchio motto di Giulio Andreotti recitava: meglio tirare a campare che tirare le cuoia. Ma oggi quel detto non vale più. Oggi non sono in gioco le cuoia di un premier. Oggi è in gioco la pelle di un'Italia sfortunata, che rischia di assomigliare ai suoi politici peggiori.
(Da: http://www.l'espresso.repubblica.it)


di Giampaolo Pansa



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"Biciclette e cultura del non fare" di Rosamaria Banfi (27/01/08)

Noi non abbiamo nulla contro le biciclette, che rendono più vivibili le Città consentendo anche un prezioso esercizio fisico, e soprattutto non apparteniamo affatto alla cultura del “no” a tutto ed al contrario di tutto, che al contrario contestiamo ad una sinistra oscurantista e reazionaria che, anche nel segno di una sorta di ossessione della “discontinuità” in cui si è ristretto il sogno fallito della rivoluzione, boicotta scientificamente sviluppo e lavoro. Anche qui a Bari dove ha- per esempio- bloccato progetti strategici come l’ammodernamento e l’ampliamento del Porto, una soluzione del “nodo ferroviario” che avrebbe consentito l’utilizzo a fini di mobilità interna del “fiume di ferro” che attraversa la Città, l’asse Nord-Sud, per non parlare di un impianto di termovalorizzazione di cui oggi tutti scoprono la necessità. Progetti, essi sì, che avevano una straordinaria valenza in termini di lavoro e di efficienza urbana, che sono due valori evidentemente non molto presenti in una sinistra sempre più elitaria che ha da tempo perduto il contatto con le problematiche autentiche della gente comune.Ciò però, come non ci ha impedito di vedere –in perfetta sintonia con gran parte della popolazione interessata- le contro-indicazioni di una ristrutturazione di via Sparano di cui in verità non si avvertiva la necessità o quanto meno l’urgenza, fino ad indurre a furor di popolo l’Amministrazione ad ascoltarci, non ci può impedire di vedere le non meno consistenti conseguenze negative della realizzazione di una pista ciclabile fine a sé stessa che renderà ulteriormente caotico il traffico in un’area vitale della Città come quella che gravita su Viale Unità d’Italia, riducendo ulteriormente i già introvabili spazi di parcheggio, senza peraltro dare alcun reale vantaggio ai ciclisti attuali o potenziali, dato che si tratta di una striscia chiusa in sé stessa, per raggiungere la quale dalle altre parti della Città occorrerà evidentemente caricarsi la bici sulle spalle o trasportarvela con qualche mezzo a motore, per respirarvici una delle arie più ammorbate dell’intera Bari. Insomma, un’altra operazione di mera immagine da parte di un’Amministrazione evidentemente bisognosa di migliorarsela, che non arrecherà alcun vantaggio al Barese comune che peraltro non sempre può permettersi di andare in bicicletta (si pensi ai vecchi, ai bambini, ai disabili, che pure costituiscono le componenti più fragili della comunità, alle quali preliminarmente dovrebbero essere destinati i pubblici interventi) e con risultati che potrebbero rivelarsi non dissimili da quelli dei getti d’acqua sul Lungomare, per non parlare dei costi, che sono comunque a carico del contribuente anche quando non gravano sul Bilancio autonomo del Comune.Diverso sarebbe il discorso se si riferisse ad un progetto organico che investa, rendendolo tutto ciclabile, l’intero territorio cittadino. Ma in tal caso occorrerebbe partire non già dalle aree centrali in cui gli spazi sono più preziosi, i pericoli maggiori e l’aria più inquinata, ma da quelle meno congestionate e più periferiche.Ma lì forse si vedrebbero meno, e ad un’Amministrazione che ha puntato tutto sull’apparire perché nulla sa costruire, ed anzi è guidata –essa sì- dalla cultura del non fare, non servirebbero più. (Da: http://www.aziendabari.it)


di Rosamaria Banfi



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Intercettazione: è arrivato il seguito

In queste ore convulse c'è giunta un'altra intercettazione. Gli interlocutori sembrano gli stessi della prima, ma i toni sono cambiati. Non sappiamo se sia vera o falsa, ma certo ci appare verosimile e come sempre nessun altro sembra volerla pubblicare. Tocca a noi ancora una volta farcene carico. Anche questa volta c'era un bigliettino scritto a mano nella busta, con poche parole che dicevano: "Io continuo a registrare tutto, ma nessuno se ne interessa. Forse si sono dimenticati di me. Spero sempre in voi".
Presidente….?
Qui non c’è più nessun presidente, chi è?
Presidente sono io, non mi riconosce?
Ah lei, certo senatore, che cosa vuole da me?
Come che voglio, dopo quello che ho fatto per lei…
Non è servito a molto senatore…
Infatti, mala colpa è sua: mi ha fatto salire su una barca che affondava…
Conosceva i rischi…
Presidente, io veramente pensavo che lei si fosse meglio organizzato, che avesse i numeri, sennò mica facevo quello che ho fatto
Ci sono stati più traditori del previsto…
E adesso tutte le promesse di babbo natale che fine fanno? Io mi sono esposto ora mi trattano da appestato…
C’è tempo senatore, la partita non è finita, ho ancora in mano molte carte…
Sì, certo presidente, ma so’ tutte scartine…
Non è detto, la confusione è grande, tutto può succedere
Presidente io mi sono legato a lei a filo doppio, lei mi deve qualcosa
Sto pensando già a qualcosa, una sorpresa, vedrà
Di che si tratta presidente?
E’ presto per parlarne: sto pensando a una cosa mia, con tutti gli amici, lei avrà un posto in prima fila…
Che pensa di mollare il suo partito, presidente?
Non è il mio partito, non lo è mai stato. Io penso ad altro e vedo già la luce in fondo al tunnel
Presidè, non sarà mica il treno!?
(Da: http://www.loccidentale.it/)


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