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LE PAROLE NECESSARIE

Dopo l’intervista di Fausto Bertinotti a Repubblica sulla crisi terminale del governo Prodi, qualcuno ha osservato che il presidente della Camera dovrebbe astenersi da questo genere d’interventi. L’osservazione è giusta ma tardiva. L’Italia non è il Paese in cui lo speaker, all’inglese, si limiti ad applicare i regolamenti e a dirigere il traffico. È il Paese in cui le due presidenze, della Camera e del Senato, concorrono con altre cariche a formare la geometria politica del potere: una sorta di politburo, al vertice dello Stato, composto da persone scelte in ragione della loro importanza e delle forze politiche che rappresentano. Non ha alcun senso pensare che Massimo D’Alema, quando aspirava alla presidenza della Camera dopo le elezioni dell’anno scorso, desiderasse una poltrona da cui assistere, con olimpico distacco, alle vicende politiche del suo Paese.
Ed è altrettanto assurdo pensare che Bertinotti, conquistando quella poltrona, avrebbe smesso di essere un leader politico e di interessarsi alla sorte del suo partito. Ne abbiamo avute ripetute prove negli scorsi mesi leggendo le sue interviste, l’elenco delle sue udienze e le cronache dei suoi viaggi. Tutto può essergli rimproverato fuorché il peccato di reticenza e dissimulazione. Il problema, caso mai, è un altro: se un presidente della Camera possa esprimersi con tanta spietata brutalità sulle condizioni del governo alla vigilia di sedute parlamentari, alcune presiedute da lui stesso, che decideranno della sua esistenza. Qui, ammetto, il problema esiste. Ma qualcuno potrebbe osservare con ragione che le dure parole dell’intervista corrispondono alla gravità della situazione.
Non è necessario condividere i programmi politici di Bertinotti o simpatizzare con la sua parte per constatare l’esistenza di due crisi, strettamente collegate. Esiste anzitutto l’evidente crisi di un governo che è teatro di interminabili conflitti, dispone al Senato di una maggioranza evanescente e sopravvive da un voto all’altro grazie al contributo, talora casuale, di personalità eminenti ma prive di un mandato popolare. Ed esiste la crisi del sistema all’interno del quale questo governo si è formato. Bertinotti ha ragione quando osserva che la barca della Seconda Repubblica «è in mezzo al fiume e va alla deriva con un duplice difetto: le maggioranze coatte (buone per vincere ma non per governare) e il trasformismo endemico».
Da questa crisi del sistema si esce soltanto con una nuova legge elettorale e con riforme istituzionali che modifichino tutti i maggiori poteri, da quello del capo dello Stato a quello del presidente del Consiglio, da quello della Camera a quello del Senato. È possibile avere opinioni diverse sulla natura della legge elettorale (proporzionale o maggioritaria) e sulla riforma della Costituzione. Ma questa barca, se non arriva finalmente in porto e cala l’ancora, naufraga. La domanda a cui rispondere, quindi, può essere così formulata: è possibile cambiare il sistema politico con un governo che ne rispecchia così fedelmente i difetti e tiene alla propria sopravvivenza più di quanto non tenga alle riforme? (Da: http://www.corriere.it/)


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