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La delusione dei moralisti

Antipolitica è un termine generico, copre esperienze diverse. La variante italiana
attuale si ispira al «moralismo (pseudo) legalitario»: l'idea è che la democrazia sia
caduta nelle mani di una banda di corrotti che si è posta al di sopra della legge. La soluzione è spazzar via la banda e sostituirla con gli «uomini comuni », i cittadini onesti, laboriosi, ligi alle leggi. E' la stessa visione che circolava negli anni '92-93, all'epoca di Mani Pulite, della «rivoluzione dei giudici ». Ma ci sono due fondamentali differenze. La prima è che a quell'epoca, anche coloro che di quella rivoluzione condannavano gli eccessi, avevano la speranza di un «nuovo inizio»: si era chiusa un'epoca storica, dominata dagli equilibri internazionali della guerra fredda e, in Italia, da una quarantennale, e ormai consunta, «democrazia bloccata». Le forze politiche scampate alle offensive giudiziarie erano in pieno rinnovamento. L'Italia era un cantiere aperto. Era lecito sperare che la democrazia della Seconda Repubblica, di cui si attendeva con impazienza la nascita, fosse migliore della Prima. Oggi non è così, quelle speranze non ci sono. Oggi la sola speranza è che in qualche modo si arresti la disarticolazione del tessuto democratico, che non ci succeda di finire tutti quanti dentro un grande buco nero.La seconda differenza è che l'ondata antipolitica dei primi anni Novanta si abbattè soprattutto, come era inevitabile, sui partiti che avevano ininterrottamente governato nei decenni precedenti. Adesso il bersaglio principale è la sinistra governante. Per molte ragioni, ma la più importante è che la sinistra, chiusa la fase della «rivoluzione dei giudici», fece un madornale errore, stigmatizzato come tale solo da pochissimi dentro quel-l'area (ad esempio, e fin da subito, da Emanuele Macaluso, già dirigente e figura storica del Pci). L'errore fu di continuare, ben oltre la conclusione dell'epoca di Mani Pulite, a blandire e a coccolare i vari portabandiera del moralismo legalitario (si pensi al cosiddetto «popolo dei fax») senza percepire che la carica antipolitica di cui quel moralismo era portatore avrebbe potuto, prima o poi, ritorcersi contro chiunque, anche contro loro stessi. L'errore fu doppio: da un lato, quello di non essersi smarcati in tempo dagli aspetti meno accettabili connessi all'attivismo giudiziario (nell'errata convinzione che i danni maggiori li avrebbero subiti, sempre e comunque, i «nemici»: prima il pentapartito e poi Berlusconi), di non avere puntato alla ricostituzione di un corretto equilibrio fra potere rappresentativo e potere giudiziario; dall'altro lato, quello di non avere usato armi culturali efficaci, di non avere messo in campo argomenti forti, ed energicamente sostenuti, per contrastare il moralismo legalitario e decontaminare dai suoi influssi la propria base elettorale. Non si può, ad esempio, fare una campagna elettorale all'insegna della lotta contro il «regime » di Berlusconi promettendo che le leggi, tutte «infami» per definizione (con la sola eccezione, forse, della patente a punti), approvate dal regime stesso, verranno abolite, e poi pretendere, quando le prassi di governo non si accordano con le promesse, di non suscitare delusione e scandalo in coloro che avevano preso sul serio quei propositi. Non hanno torto gli adepti del moralismo legalitario quando parlano di promesse non mantenute. Anziché combatterla con rigore, la sinistra, per anni, ha ritenuto conveniente lisciare il pelo all'antipolitica nella variante italiana. Senza immaginare che un giorno le sarebbe stato presentato il conto. (Da: http://www.corriere.it/)


22 settembre 2007


di Angelo Panebianco



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